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domenica 5 ottobre 2008

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CENNI SULLA LINGUISTICA

Rivista Letteraria Alla Bottega Milano
Direttore Pino Lucano


di
Gennaro Di Iacovo

Al Professore Arnaldo Corrieri ed ai miei alunni del Ginnasio.

« Perché dunque incolparmi adesso, dell'avervi messo a parte delle mie ansietà, se mi ci spingesti e scongiurasti Tu stessa? Forseché, nel disperato e mortale- sbaraglio in cui mi dibatto, sarebbe in tono, che voi intanto ve la godeste? O vorreste forse, adesso, esser soltanto compagne di gioie, e non anche, più, di dolore? rallegrarvi con gli allegri, sì, ma piangere coi piangenti, no? Tra i veri e i falsi amici non c'è maggior divario che dell'associartisi i falsi, nella fortuna, ma, i veri, nella sventura ». (Abelardo ed Eloisa, Lettera V - Alla Sposa di Cristo il suo servo - A.F. Formiggini Editore, Roma 1927, pagg. 113 segg.).
Secondo Ferdinand de Sausurre « la materia della linguistica è costituita anzi¬tutto dalla totalità delle manifestazioni del linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili, di epoche arcaiche o classiche o di decadenza, tenendo conto per ciascun periodo non solo del linguaggio corretto e della "buona lingua", ma delle espressioni d'ogni forma. Non è tutto: poiché il linguaggio sfugge piut¬tosto spesso all'osservazione, il linguista dovrà tenere conto dei testi scritti, i quali soli potranno fargli conoscere gli idiomi del passato o quelli -lontani.
Il compito della linguistica sarà a) fare la descrizione e la storia di tutte le lingue che potrà raggiungere, ciò che comporta fare la storia delle famiglie di lingue e ricostruire, nella misura del possibile, le lingue madri di ciascuna famiglia; b) cer¬care le forze che in modo permanente e universale sono in gioco in tutte le lingue, ed estrarre le leggi generali cui possono ricqrjdursi tutti i particolari fenomeni della storia; e) delimitare e definire se stessa » (F. De Sausurre, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1979, pag. 15).
Osserva il Mounin {Guida alla linguistica, U.E. 626, Feltrinelli ed., Milano 1975, pagg. 19 segg.) che la « linguistica », intesa come lo studio scientifico del linguaggio umano, è « un insieme di conoscenze molto antico » e, nello stesso tempo, « una scienza assai recente », perché ha in realtà una lunga tradizio¬ne scientiflco-culturale alle spalle, anche se solo recentemente è stata clamorosa¬mente portata all'attenzione d'un vasto pubblico, grazie a recenti studi sociologici e psicologici sui sistemi linguistico espressivi.
Prima gli Indiani, poi i Greci ed .infine gli Arabi hanno posto le basi per un'ana¬lisi fonetica di notevole valore, anche se troppo trascurata per duemila anni.
Certamente, possiamo prendere come motivazione di base della nascita del linguaggio l'esigenza di comunicare impressioni ed informazioni nata dall'incontro di esseri dotati di sensibilità e, se vogliamo, d'intelligenza. Molto tardi si è svilup¬pata la scrittura. Per giungere a questa si è dovuto genialmente intuire che è pos¬sibile connettere ad altro segno-simbolo grafico-fisico un suono, ed infine un si¬gnificato convenzionale. Si è giunti per gradi a quei segni che ora chiamiamo « let¬tere », e che hanno la funzione di materializzare visibilmente dei suoni (fonemi).
I primi linguisti senza dubbio sono stati « gli uomini che hanno inventato e perfezionato la scrittura » (Meillet, in Mounin, op. cit.). Durante il Medio Evo, ac¬canto ad uno studio convenzionale e grammaticale, spiccano alcune intuizioni ori¬ginali e quasi anticipatrici di teorie ancora oggi attuali, come quelle di Dante, che esamineremo più oltre.
La riforma dell'ortografia, operata in tutta Europa e resa operante con l'inven¬zione della stampa, stimolerà lo studio della fonetica fino al secolo XVIII. Del XIV secolo sono le prime grammatiche delle lingue volgari. Guido Cavalcanti scrisse « una grammatica e un'arte del dire » sul volgare fiorentino (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Voi. I, pag. 56, Einaudi, 1958). Dal XVI secolo inizia lo stu¬dio delle lingue amerinde e nascono i primi dizionarì poliglotti. Si tentano le prime classificazioni linguistiche (Scaligero). Nel XVII e XVIII secolo la ricerca si esten¬de in ogni direzione: la fonetica progredisce con gli studi anatomici ed appas¬siona gli inventori delle stenografie e delle lingue artificiali, e gli educatori dei sordomuti.
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Tuttavia resta insolubile il grosso problema dell'origine del linguaggio, malgrado le ipotesi proposte, tutte non sufficientemente attendibili o non verificabili, come quella dell'ebraico lingua madre. La scoperta del sanscrito, tra il 1786 e il 1816, segna una grande svolta in questo campo, Si dimostra, con una evidenza indiscu¬tibile, la parentela tra il latino, il greco, il sanscrito, le lingue .germaniche, slave e celtiche. Nasce, con i tentativi operati da Franz Bopp per ricostruire l'indoeuro¬peo nei suoi tratti essenziali, la grammatica comparata. Si prende spunto, para¬gonando fra loro i diversi linguaggi, dai metodi e dai principi delle scienze natu¬rali. Le lingue vengono assimilate ad organismi viventi: allo studio del linguaggio viene applicato, per quasi mezzo secolo, il metodo biologico.
Secondo i grammatici « naturalisti », come lo Schleicher, che era anche bota¬nico-naturalista, le lingue nascono, crescono e muoiono come qualsiasi organismo vivente. E la loro vecchiaia inizia dal momento in cui si codificano nella scrittura.
Dagli studi linguistici comparativi, si sviluppa la linguistica storica, che nasce dall'esigenza di paragonare fra loro fenomeni linguistici verificatisi attraverso stadi progressivi d'una stessa lingua. Così la grammatica comparata da origine al¬lo studio della incessante evoluzione delle lingue. Questa trasformazione è rea¬lizzata tra il 1876 ed il 1886 dalla scuola dei neogrammatici, a cui si deve la si¬stemazione rigorosa del fonetismo arioeuropeo.
La fonetica detiene in questa fase una importanza predominante: riesce a spie¬gare la quasi totalità dei mutamenti linguistici.
Ci si rivolge anche alla nuova scienza: la psicologia, per spiegare la dinamica di alcuni fenomeni generali.
La lingua, studiata storicamente, non è più considerata un'entità suscettibile d'un'analisi biologica, ma piuttosto un'istituzione umana. La linguistica diviene, perciò, una scienza storica, e non appartiene più alla sfera delle scienze naturali.
Una nuova impostazione al problema linguistico sarà data da Sausurre (1857-1913), che interpreterà il linguaggio come una istituzione sociale. Come già si è accennato, compito fondamentale della linguistica è, per il Sausurre, quello di descrivere il maggior numero possibile di lingue storico-naturali e famiglie di lin¬gue sia nella loro funzionalità in un dato momento, sia nel loro divenire attraverso il tempo (studio sincronico o diacronico - « langue » o « parole »), sia da un punto di vista interno, sia da uno psicosociologico, culturale, storico e, in generale, « esterno ».
La teoria del linguista svizzero, in pratica, rovesciò le impostazioni tradizionali della linguistica. Egli stabilisce che la prima tappa d'una scienza del linguaggio dev'essere lo studio del suo funzionamento, « hic et nunc », e non quello della sua evoluzione. La linguistica storica deve esser messa al secondo posto, da un punto di vista metodologico, rispetto ad una più importante linguistica descrittiva. È que¬sta la nota opposizione tra linguistica sincronica e linguistica diacronica.
Lo sforzo di comprendere il funzionamento puro del linguaggio come istituzio¬ne sociale, qui e adesso, conduce il Sausurre a mettere l'accento sulla nozione di sistema. Questo, per lui, è quasi sinonimo di codice. Così « segno », per lui, non è più sinonimo di parola, termine troppo generico, e la nozione di « catena par¬lata » diviene prioritaria rispetto a quella di « frase ». Il termine che Sausurre usa in questo campo è quello di « unità ». Egli vuole individuare le unità reali che compongono la catena parlata. Gli strumenti che propone per studiare le unità di codice che costituiscono i messaggi, sono analisi strutturali. Per questo, con lui, ha inizio il cosiddetto « strutturalismo ». '
La lingua, per il fondatore della moderna linguistica strutturale, « è il patri¬monio collettivo delle forme foniche "significanti", univocamente combinate con i relativi "significati". Questo'patrimonio di segni è organizzato in "sistema", in quanto ciascuno di essi deve la sua esistenza al fatto di entrare in certi rap¬porti con gli altri.
La "funzionalità" del sistema — ciò che lo rende uno strumento atto a funzio¬nare nei singoli atti di "parola" — è costituita appunto dalle opposizioni e corre¬lazioni intercorrenti tra i singoli elementi, i quali risultano individuati dai loro rap¬porti differenziali nei confronti degli elementi similari, piuttosto che dalle loro caratteristiche positive » (R. D'Avino, Introduzione a un corso di Storia Comparata …

delle lingue classiche, Kappa Ed., Roma 1967, pagg. 13 segg.). Quindi, per com¬prendere veramente un termine, non si può isolarlo dal sistema di cui fa parte
In tal modo il linguista svizzero anticipa i risultati e le scoperte dovute agli studi di antropologia culturale, che vedono la lingua non come legata ad una struttura oggettiva di cose, ma come creatrice di tali strutture, in funzione dei bi¬sogni della società che la pone e la mantiene in essere.
La lingua ha infatti la capacità di discriminare l'esperienza in significati e di organizzare le fonìe o le loro rappresentazioni grafiche in significanti.
Sausurre distingue, all'interno del fenomeno linguistico, un aspetto « oggettivo » costante, la « langue », ed un aspetto « soggettivo », individuabile, espressivo, la « parole ».
La « parole » è l'uso che ciascun parlante fa del patrimonio linguistico espres¬sivo comune (« langue »).
L'opposizione fra « langue » e « parole » si può interpretare come quella fra sistema astratto e sue singole manifestazioni materiali. Quella fra paradigmatica e sintagmatica si può interpretare in termini di codice e messaggio; ad essa molti fanno corrispóndere una distinzione terminologica fra struttura (sintagmatica) e sistema (paradigmatica). (G.C. Lepschy, La linguistica strutturale, P.B. Einaudi, Torino 1966, pag. 31).
I principali agenti del mutamento linguistico vengono individuati nei fenomeni dell'alternanza, dell' analogia e dell'agglutinazione.
Dopo Sausurre, lo strutturalismo ha assunto varie tendenze:
Strutturalismo ontologico (Chomsky): concepisce, antistoricamente e naturali¬sticamente, le strutture sociolinguistichre come prodotto delle doti biologiche
contenute nell'uomo, nella sua natura, e quindi le ritiene « innate ».
Strutturalismo. storicizzante: riconosce nelle strutture un prodotto storicamente e tem¬poralmente circoscritto dell'agire umano. Lo strutturalismo praghese (Jakobson e Trubeckoj) è stato ontologico e storicizzante.
Strutturalismo metodologico: concepisce le strutture solo come sistemi utili alla pre¬
sentazione ed alla catalogaziene dei fenomeni.

Strutturalismo. epistemologico: nel riconoscimento del carattere strutturato d'un campo d'esperienza vede una necessità non derogabile della conoscenza umana.

Lo strutturalismo americano è stato soprattutto uno strutturalismo metodolo¬gico. Bloomfield, Harris, Hockett ed Hall ne sono i maggiori esponenti.

Poiché la lingua è un organismo in evoluzione, ci si offre la possibilità di un suo studio diacronico che ne colga l'evolversi temporale.

Sausurre privilegia però, come si è già detto, un secondo tipo di analisi del fenomeno linguistico, basato sullo studio della lingua in un determinato momento storico, così da descriverne il meccanismo ed i rapporti esistenti fra gli elementi che ne costituiscono il sistema. Così, pur ponendo in evidenza l'arbitrarietà del linguaggio, afferma che tale caratteristica è limitata e disciplinata daìla organicità del sistema.

Tutto il sistema della lingua poggia sul principio irrazionale dell'arbitrarietà del segno, per cui il significato viene unito al significante non per una precisa legge naturale, ma in base a criteri « arbitrari » scelti dal parlante.

Questo principio, applicato senza restrizione, porterebbe alla massima con¬fusione.

Lo spirito riesce ad introdurre un principio d'ordine e di regolarità in certe parti della massa dei segni, ed è in ciò il ruolo del relativamente motivato. (F. De Sausurre, Corso di Linguistica Generale, Laterza, Bari 1972, pag. 159).
Solo una parte dei segni è assolutamente arbitraria. Presso altri interviene, in¬vece, una serie di rapporti che ne limitano l'arbitrarietà, lasciando il posto ad una motivazione, che resta, comunque, pur sempre parziale.



Questi rapporti che determinano il significato arbitrario dei segni sono detti paradigmatici (o « associativi »), in quanto definiscono o precisano il significato all'interno di una medesima serie (insegnare, insegnamentp, indottrinamento etc.). Sono rapporti in absentia.

Altri rapporti, però, contribuiscono a definire il significato di un segno, e sono i rapporti sintagmatici. Vale a dire quelli che intercorrono fra una parola e quelle che seguono o precedono nella frase.

Il valore della parola dipende, perciò, anche da quello delle parole che la cir¬condano nella catena parlata. Si tratta, quindi, di rapporti in praesentia.
Lo studio sistematico di ogni unità minima, di tutte le sue possibili associa¬zioni oppositive (paradigmatiche) o dei vari rapporti sintagmatici, coincide con una considerazione « sincronica » della lingua.
Questo si traduce in una « linguistica statica » che descrive un particolare stato della lingua. Questa per Sausurre è la « grammatica ».

Tale concetto supera la grammatica normativa tradizionale, basata su rigorose classificazioni delle parole (le « parti » del discorso). Si arriva ad una visione glo¬bale, sistematica e funzionale del fatto linguistico. La « morfologia » si fonde con la « sintassi » e con lo studio lessicologico. Anziché partire dagli elementi lingui¬stici, si parte dal sistema, avendo come fine la scoperta di come funzioni e si realizzi nei singoli atti del parlante. Dopo le feconde e geniali intuizioni di Sau¬surre, — scrive G.C. Lepschy (La linguistica strutturale, Einaudi 1966, pagg. 37-39) — le tendenze strutturalistiche si possono caratterizzare sommariamente co¬me segue, in base alle loro linee direttive teoriche.

La Scuola di Praga, e più recentemente A. Martinet, per il loro insistere sui valori funzionali della struttura linguistica e dei veri elementi di cui la struttu¬ra si compone.

La Scuola di Copenaghen, e in particolare la glossematica di L. Hjemslev, per il suo insistere sul carattere astratto del sistema linguistico, in base al quale van¬no interpretate le singole manifestazioni materiali.
La linguistica americana, in particolare postbloomfieldiana per il suo carattere tassonomico, per il suo basarsi cioè su processi di segmentazione (del continuum, dell'enunciato in elementi minori di cui esso è composto) e di classificazione di tali elementi in base alle loro proprietà distribuzionali (in base cioè alle possibilità che tali elementi hanno di combinarsi fra loro, formando unità di ordine superiore sempre più complesse).

Le teorie generative, in particolare di Chomsky, elaborate a partire dalle diffi¬coltà contro cui si scontrava l'analisi linguistica tassonomica, introducono nel modello linguistico da esse elaborato, delle regole che consentono di generare (tutte e solo) le proposizioni ammesse in una certa lingua; si introducono in parti¬colare delle regole di trasformazione che consentono di generare intere categorie di proposizioni a partire da altre categorie di proposizioni basilari (la cui struttura viene stabilita attraverso procedimenti tassonomici).

La grammatica generativa trasformazionale è composta da un blocco o com¬ponente centrale sintattico (un calcolo, come si direbbe con termini della logica moderna); da un lato questo è soggetto a un'interpretazione semantica (il compo¬nente semantico è quello che attualmente richiede maggior elaborazione); dall'al¬tro, le « stringhe » finali che esso produce vengono, attraverso le regole del com¬ponente fonologico, materializzate nella catena parlata, nei messaggi fonetici che noi percepiamo. Una posizione centrale hanno le teorie di Jakobson e più recente¬mente di Halle, secondo cui nel componente fonologico ci si serve di un inventario di dodici «tratti distintivi binari » che costituiscono veri universali linguistici, co¬muni a qualunque lingua.


Noam Avram Chomsky porta i dati e le intuizioni di Sausurre a livelli decisa¬mente rivoluzionari. La linguistica, con lui, abbandona ogni finalità semplicemente classificatoria (linguistica tassonomica) per interessarsi soprattutto di ricostruire modelli ipotetici espliciti delle lingue, destinati a chiarire i dati linguistici osser¬vabili. Con lui ci si avvia verso una vera concezione teorica della linguistica, già abbozzata dagli strutturalisti.



Il linguista americano, che ricerca le forme della realtà profonda del linguaggio, reinterpreta la distinzione sausurriana di « langue » e « parole » nei termini di « competenza » (la conoscenza implicita, e non conscia, che il parlante ha della propria lingua) e di « esecuzione » (le frasi che il parlante produce realmente, nelle quali si manifesta la sua competenza), e si propone di definire la compe¬tenza linguistica, cioè, come egli scrive. « // sistema astratto di regole che sotto¬sta al comportamento verbale di ciascun parlante ». Chi parla una lingua può pro¬durre, e comprendere, un numero pressoché illimitato di frasi, la maggior parte delle quali non sono mai apparse prima, e, molto verosimilmente, non riappari¬ranno più.

Ogni parlante « reinventa » la lingua. Di questo aspetto creativo del linguaggio umano, fondamentale per Chomsky, non darebbe certo ragione una indagine che si rivolgesse all'esecuzione — cioè a un corpo di.testi necessariamente finito —, per estrarne, induttivamente, il sistema di regole che lo governano.

Del resto, come ricorda l'esperienza della scienza contemporanea, la raccolta, l'osservazione e la classificazione dei dati non ci garantiscono alcuna generalizza¬zione scientificamente valida, che possa cioè prevedere i nuovi fatti, oltre a fornire una descrizione plausibile di quelli già noti. La formulazione di una teoria scientifica comporta sempre un rischio. Essa viene costruita servendosi di un numero limi¬tato di esperienze, e quindi verificata nei fatti, che hanno la funzione di farla respin¬gere o accettare (« i dati dell'osservazione sono interessanti nella misura in cui hanno una incidenza sulla scelta fra due teorie rivali », scrive Chomsky). A questi principi s'attiene il linguista, allorché cerca di specificare le regole che governano la competenza lingusitica, elaborando alcuni modelli ipotetici (grammatiche), e confrontandoli quindi con i fatti linguistici reali, che decideranno quale sia il più adeguato.

A differenza degli strutturalisti europei, Chomsky non parte dalle unità minime della lingua, ma dalla frase. Il compito di uria grammatica risiede nella capacità di enumerare tutte le frasi incontestabilmente grammaticali della lingua data, esclu¬dendo, per converso, quelle pure incontestabilmente non grammaticali (V. Boarini -P. Benfiglieli, Avanguardia e restaurazione, Zanichelli, Bologna 1976, pagg. 666 segg.).

In questo modo il fatto centrale nello studio del fenomeno linguistico è la in¬nata capacità che ha ogni parlante di produrre e di comprendere un numero gran¬dissimo di frasi, anche se non le ha mai prima d'allora ascoltate né pronunciate. Questa capacità produttiva e decodificatoria nell'ambito linguistico, la chiama dunque « competenza (linguìstica) » (= conoscenza implicita che ogni parlante ha della propria lingua). Tale sistema mentale di regole e norme linguisticamente ope¬ranti è codificato nella « grammatica ».
Chomsky tende a ridurre i modelli linguistici ad un insieme di regole meccanica¬mente applicabili sotto la forma di un algoritmo (procedimento sistematico che consente di pervenire al risultato desiderato con una bene determinata succes¬sione di operazioni eseguite secondo regole precise).

Abbandonando la pretesa di emettere giudizi inconfutabili sulle reali regole usate dal parlante nella produzione linguistica, la grammatica generativa cerca in sostanza di adeguarsi, cercando di definirne i meccanismi, alla realtà sottostante il comportamento effettivo dei parlanti. Così diventa una branca della psicologia.

Si cerca pertanto di ricostruire ipoteticamente e scientificamente la struttura di un meccanismo che ogni bambino ha riprodotto appropriandosi di un linguaggio in un determinato ambiente.
Questo meccanismo deve essere molto sistematico e ben coordinato, operante secondo schemi omogenei, se è vero che bambini di 2-3 anni sono già in grado di appropriarsene. Insomma, una grammatica è un meccanismo capace, pur essen¬do finito, di generare un insieme infinito di frasi grammaticali.
Il modello linguistico di base di cui Chomsky si serve per visualizzare i rapporti esistenti fra i costituenti (parole) della frase, è il « phrase marker » (indicatore della frase). Questo è anche definito « indicatore sintagmatico », in quanto scom¬pone la-frase in gruppi sintagmatici,- ossia in gruppi di parole che hanno un con¬tenuto unitario, e all'interno di ogni sintagma specifica le categorie (nome, articol et cetera) e le funzioni (soggetto, predicato etc.).

Il costituente più elevato è la frase.

Ad esempio:

l’uomo colpisce la palla

Una prima divisione comporta una prima distinzione fra due sintagmi. Il sintagma o gruppo nominale (GN] « l'uomo », forma¬to da articolo (o determinante) e nome, ed il sintagma o gruppo verbale « colpisce la palla ». Quest'ultimo può essere diviso ancora in altri costituenti: il verbo, « col¬pisce », ed il secondo gruppo (o « sintagma ») nominale (GN) « la palla ».
I due GN possono essere scomposti neMoro costituenti ultimi (parole, « mor¬femi » o, per Martinet, monemi, ossia unità linguistiche minime dotate di signi¬ficato):
l'uomo = GN (o SN) = Art (o Determ.) + N (sogg. = GN 1) la palla = GN - Art + N (compi, ogg. = GN 2)
La « formula » della frase semplice è, quindi, la seguente: Fs = GN + GV.
Mediante l'applicazione d'una serie di « regole di riscrittura » si giunge ai costi¬tuenti terminali:
GN + GV Art + N + GV Art + N + Verbo + GN + N + Verbo + GN + uomo + Verbo + GN + uomo + colpisce + Art + N + uomo + colpisce + la + N + uomo + colpisce + la + palla
(E. Cavallini Bernacchi, l'insegnamento della lingua, II Punto-emme edizioni, Mi¬lano 1975, pag. 84 e N. Chomsky, Le strutture della sintassi, U. Laterza, Bari 1974, pag. 36).
(Nota: le « regole di riscrittura » hanno la forma generale X—>Y, da interpre¬tarsi come « si riscriva X come Y ». Per es. F—» SN + SV (Frase = Sintagma (o Gruppo) Nominale + Sintagma Verbale).
Questo sistema permette — cosa che si nota facilmente — di visualizzare an¬che le differenze di struttura che possono generare ambiguità in frasi apparente¬mente simili.
Esaminiamo la frase seguente:


1. una vecchia
porta la sbarra


2. una vecchia porta
la sbarra

L'ambiguità è generata dal modo in cui si intende il monema « porta »: Nome
oppure Verbo. :
Nel primo caso la stringa categoriale sarà A + N + V + A + N.
Nel secondo sarà: A + Agg. + N + Pron. + V.

Ma esistono frasi che restano ambigue anche dopo un'analisi sintagmatica strut¬turale di questo tipo.

Per esempio, la frase « il maestro spaventa il bambino » è ambigua, perché può essere assunta sia nel senso che il maestro compie qualche azione che spaventa il bambino, sia nel senso che il bambino si spaventa alla sem¬plice vista del maestro.

Nei due casi è diversa la relazione tra « il maestro » e « spaventa ». La gramma¬tica sintagmatica non è in grado di distinguere strutturalmente le due interpreta-zioni.






La grammatica sintagmatica non sa render conto delle relazioni intuitive fra una frase attiva e la corrispondente negativa, interrogativa o passiva.




IL TRASFORMAZIONALISMO

Per questo motivo Chomsky introduce le regole « trasformazionali ». La sua grammatica è detta perciò « generativo-trasformazionale ». In questa grammatica, ad una prima analisi « sintagmatica », che visualizza le strutture profonde delle frasi, segue una seconda analisi che chiarifica le regole di trasformazione, determinando la struttura superficiale delle frasi, che coincide con la forma finale degli enunciati.

Per esempio, alla struttura profonda « io ordino a te tu vieni » operano le trasformazioni che la mutano in:
« ti ordino di venire » .

La grammatica sintagmatica analizza solo la frase-base.

Costruito il primo indicatore sintagmatico, si può procedere all'applicazione di ogni possibile trasformazione:
ti ordino di venire?
Ti ordino di venire!
Vieni! … te lo ordino
Da parte mia ti si ordina di venire
Io … ordinarti di venire !…
(interrogativa, esclamativa ed imperativa; negativa, passiva ed enfatica).
La frase-base è « dichiarativa ».

Le posizioni della grammatica generativo trasformazionale, come osserva la Bernacchi, sono, implicamente, un'accusa continua ai fini ed ai metodi delle gram¬matiche tradizionali. Mentre quest'ultime (ch£ si identificano in genere con quelle scolastiche) si preoccupano di fornire al parlante un insieme di regole che rendano corretto ed ortodosso il suo uso linguistico, le grammatiche generative assumono che le regolarità della lingua siano già implicitamente possedute dal parlante, alla cui competenza, anzi, fanno continuo ricorso per valutare il loro grado di ade¬guatezza.
Il fine di tali grammatiche, quindi, non è di fornire le regole della lingua, ma di scoprirle deducendole dagli usi linguistici concreti. Esse si propongono non di « in¬segnare la lingua », bensì di indagare sui processi mentali che regolano l'acquisizio¬ne e l'uso delle lingue, cioè di formulare un sistema di norme che permetta la for¬mazione di tutte le possibili frasi grammaticali ed escluda invece quelle non grammaticali.
Non hanno dunque intenti didattici, ma scientifici. Loro scopo, come si è accen¬nato, è la costruzione di una teoria del linguaggio.
Per questo, tali grammatiche rifiutano ogni atteggiamento di infallibilità e di incontestabilità, prerogativa delle grammatiche tradizionali. In questo senso, pur senza assumere fini didattici, le grammatiche generative contengono fondamentali fermenti didattici. Le « regole » grammaticali si rivelano inutili in un doppio senso: da un lato perché l'insegnante dovrebbe abituarsi a non spiegare ai propri alunni i fenomeni della lingua, ma a cercarne invece insieme a loro diverse possibili spie¬gazioni; dall'altro perché ciascuno impara a parlare correttamente da" sé, purché venga esposto all'emissione di enunciati corretti, e purché non gli sì crei la paura di sbagliare.
In questo senso uno dei fondamentali compiti dell'insegnante riguardo all'ap¬prendimento linguistico resta quello di riprodurre e di incrementare la situazione naturale di conversazione, di scambio verbale spontaneo attraverso cui ogni bambino, senza che gli vengano insegnate regole, impara a parlare.
Sì tratterà poi, in diversi gradi a seconda del livello scolastico o delle fasce di
livello all'interno di una classe medesima, di prendere spunto da questi atti di co¬
municazione per avviare riflessioni sistematiche sulle caratteristiche dell'uso lin¬
guistico, così da rendere ciascuno il più possibile consapevole delle caratteri¬
stiche, della natura e delle possibilità dello strumento linguistico (E.C. Bernacchi,
pagg. 90-91).



§


:
DANTE PRECURSORE DELLA MODERNA LINGUISTICA

Intuizioni dantesche di chiarissima.attualità sono la considerazione del linguaggio come «forma» e del « segno » come « libero »; il riconoscimento del divenire delle .lingue e della sto¬ricità del fatto linguistico; il rilievo del fattore sociale nel processo evolutivo dei linguaggi; la nozione di « lingua » come comunione linguistica nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; la nozione di lingua comune come ten¬denza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'arte e il prestigio e l'azione del potere politico.
Sarà bene analizzare brevemente solo alcuni di questi punti, mirabilmente illu-strdu ud Antonino Pagliaro (A. Pagliaro, Nuovi Saggi di Critica Semantica, la dot¬trina linguistica dì Dante, Editore G. D'Anna, Messina-Firenze 1963, pagg. 215 segg.).

Il linguaggio è, per Dante, facoltà propria ed esclusiva dell'uomo di esprimere con parole gli intellectus o conceptiones della mente.
La parola è per lui il « segno fonico », come noi l'intendiamo, « rationale et sen¬suale » (De Vulgari Eloquentia, I, III, 2); ha, cioè, una realtà sensibile, in quanto il suono è oggetto di sensazione, ed una realtà spirituale, in quanto il complesso fonico ha un significato che ad esso inerisce non per necessità naturale, ma perche gli uomini ve lo attribuiscono: « nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare idetuz ad placitum » (De V.E. I, III, 3) (ed appunto questo segno è quel subietto nobile di cui parlo): infatti è alcun¬ché di sensibile, in quanto è suono; e di razionale, in quanto appar significare alcuna cosa a piacimento) (Dante Alighieri, Tutte le opere, a C.L. Blasucci, ed., Firenze 1965, pag. 205 b).

" Fu necessario, dunque, che il genere umano per comunicare fra sé le proprie idee disponesse di qualche segno sensibile e razionale; che esso, dovendo da ra¬gione ricevere ed a ragione portare, fu necessariamente razionale; e non potendosi d'altra parte riferire da una ragione all'altra se non per mezzo sensibile, fu neces¬sariamente sensibile. Pertanto, se fosse soltanto razionale, non potrebbe passare dall'uno all'altro; se fosse soltanto sensibile, non potrebbe da ragione ricevere ed a ragione portare » (De V.E. I, III, 2).

Sono da rilevare due punti essenziali in questa concezione. Prima di tutto il riconoscimento (cinque secoli prima di Sausurre) dell'arbitrarietà del segno lin¬guistico, e più precisamente della libertà della parola come complesso di segni va¬riamente organizzati. Tale arbitrarietà (« aliqujs significare ad placitum ») è lega¬ta da Dante con la libertà inerente allo spirito [ratio], mentre gli animali che ob¬bediscono all'istinto sono legati nel comunicare a certi atti o manifestazioni emo¬tive (« per proprios actus vel passiones » — per mezzo dei suoi propri atti o pas¬sioni — De V.E,, I, III, 1).
La facoltà di connettere suono e significato è data all'uomo da natura, ma l'at¬tuazione, la modalità di tale connessione è ad arbitrio degli uomini, cioè della li¬bertà che è inerente alla loro « ratio »:

« Opera naturale è ch'uom favella;
ma, così o così, natura lascia
poi fare a voi, secondo che v'abbella » (Paradiso XXVI, 130-132).


A questa comune capacità fonico semantica, corrisponde nei fatti una grande varietà di lingue diverse.
Per spiegare la formazione di comunità linguistiche distinte, Dante ricorre alla tradizione biblica della confusione babelica, interpretandola in forma nuova e ori¬ginale.
Gli uomini che erano intenti alla costruzione della torre, per la necessità del loro lavoro, crearono tante lingue speciali in conformità alle singole attività comuni.
« Solo quelli, infatti, che si accomunavano in una data operazione vennero ad avere una lingua medésima: una, per esempio, tutti gli architetti, una quanti rotolavano i sassi, una quanti li preparavano e così avvenne di tutti gli operai. E quante erano le forme di attività impegnate nella costruzione, in tanti idiomi allora si divide il genere umano » (De V.E. I, VII, 7). Dante individua nel bisogno di comu¬nicazione, inerente al comune lavoro, la creazione di singole lingue speciali.

47 Pur senza staccarsi dalla base culturale tradizionale, costituita dalla Bibbia, egli aggiunge una nota nuova al mito ebraico, anticipando la moderna teoria « sinergastica »'(greco: siunergàzomai = lavoro insieme) dell'origine delle lingue.

Sulle lingue europee, Dante pone quello che chiama « idioma tripharium » come lingua che ha dato origine alle tre lingue romanze a lui note: francese, provenzale ed italiano. Non dice, però, esplicitamente cosa sarà stato questo linguaggio che è alla base delle tre lingue neolatine. Non lo identifica, comunque, con il latino della tradizione colta.

Lo sviluppo del suo argomentare porta necessariamente alla nozione di una lingua parlata, di cui il latino letterario, il latino dell'uso colto medioevale, sarebbe stato la forma grammaticale.
E nello stesso modo in cui ha intuito l'unità sostanziale dell'idioma tripharium, di cui la « lingua del sì », la « lingua d'oil » e la « lingua d'oc » sono manifestazioni diverse, Dante intuisce anche la fondamentale unità della « lingua del sì » alla base delle varietà dialettali. In tal modo, quindi, giunge alla determinazione della comu¬nione linguistica, che è alla base di un dominio dialettalmente differenziato, ossia della « lingua » nel senso « storico » della parola.

« In quanto agiamo come Italiani, abbiamo alcuni segni essenziali e di costumi e di atteggiamenti e di idioma, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane. E appunto questi, che sono i segni più perfetti di quelle che sono le azioni proprie degli italiani, non sono specifici di nessuna città d'Italia e in tutte sono comuni; fra essi ora si può discernere quel volgare di cui sopra andavamo in cerca, del quale ogni città vi è sentore e che in nessuna ha sede » (De V.E. I, XVI, 3-4). È da rilevare che Dante pone la lingua sullo stesso piano dei costumi e degli istituti, in cui si determina la fisionomia storica di una comunità.
Noi oggi sappiamo, e Dante lo aveva"intuito, che l'affermarsi di una lingua co¬mune su un dominio dialettalmente differenziato è dovuto a circostanze varie, poli¬tiche e culturali, che danno la prevalenza alla parlata di una regione, di una città o addirittura di un ceto. Così è avvenuto per la Koinè greca, affermatasi per il pre¬stigio politico e culturale di Atene; così è avvenuto per l'italiano, per il francese, per il tedesco.

Ma Dante non ci trovava, come ci troviamo noi, ora, di fronte al fatto compiuto, e con le sue intuizioni anticipava l'avvenire, riuscendo a prevedere lo sviluppo probabile di certe potenzialità linguistiche.
Se l'italianità linguistica ha la sua essenza in alcuni caratteri fondamentali. •• primissima signa », il volgare illustre, cioè la lingua comune, non può aversi se non attraverso lo scoprimento di questi caratteri e l'adeguamento ad essi di ogni atteggiamento del parlante, escludendo il difforme ed il deviato dall'uso corretto della lingua.

Appare chiaro come Dante veda nell'unificazione linguistica un'opera di crea¬zione nazionale e popolare collettiva, ed un'opera di ricerca cosciente e paziente da parte di una minoranza di intellettuali che. avvalendosi dell'Arte, di un gusto gentile e raffinato e dell'appoggio d'un opportuno ambiente politico, dia uniformità ed ampiezza all'uso linguistico, mantenendolo, tuttavia, fedele ai suoi fondamentali contrassegni genetici.
Concludendo, gli elementi nuovi apportati dal trattato dantesco nei confronti della speculazione linguistica antica e anticipatori delle moderne dottrine lingui¬stiche si possono così riassumere: considerazioni del linguaggio come « forma » (ossia costituzione del vocabolo nel suo rapporto necessario fra suono e significato e modo di organizzare i vocaboli nella frase: delimitazione di Piano Paradigmatico e Piano Sintagmatico) e del « segno » come « libero » (arbitrarietà del linguaggio, per Sausurre); riconoscimento del divenire delle lingue e della storicità del fatto -linguistico; rilievo del fattore sociale e politico; nozione di « lingua » come « co¬munione linguistica » nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; nozione di lingua come tendenza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'Arte e il prestigio e l'azione del potere politico.

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martedì 23 ottobre 2007

Filosofia estetica e contesto letterario





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Argos&Kepos
la stanza di Romeo

il giardino di Tito Lucrezio Caro
sba gldj


donapaideia
il dizionario di Donatello




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sbmp
sintagma
bibliotheka
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gldj sba Bibliotheka
la Biblioteca di Antonino

sbm gldj

...
Romeo's Garden room
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il Giardino del Nespolo
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sintagma bibliotheka Alba Tros
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sbm gldj
sba gldj
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Antonines
... vox Patris
italice dicta ac
latine vorsa ...

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cònfer ... :

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Sintagma Biblioteka Argos

Romeo's garden
Vincent's eyes
Tito L Caro


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Vincent ... starry starry night
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... il Re Gatto ridente ...

il Giardino di Tito

Silent blackmail

Kwandargos

Tarrakkond

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Ruphus Samnìs

la Primavera di Antonino

Ksanta di Polilithium
Xanta di Polilitio
Xanta


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...
... Papà ...
... Ma esiste una terra
senza montagne ... ?

Il Figlio a Guglielmo Tell


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_§_Filosofia estetica e contesto letterario_§_

Estetica contestuale

Gennaro di Jacovo


ante diem decimum Kalendas Novembres

Decimoktavo anno
post Argum Natum
Urbis Telluris oppido

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Indeks ...

1 Cos'è l'estetica contestuale?
2 Scrittura mediata e scrittura immediata
3 Relazione o commento
4 Qui studet optatam cursu contingere metam...
5 Strutture paratattiche, ipotattiche e Funzioni linguistiche
6 tendenze paratattiche e ipotattiche
7 Platone
8 La parola
9 Ideogrammi della Mesopotamia
10 La Legge della Casa - Oikos nomos
11 Arte e Pòlis da Platone a Gramsci
12 Càtharsis
13 La metriòtes e il piacere catastematico


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Riferimenti bibliografici
confer: Cenni sulla Linguistica
di Gennarino di Iacovo
Gennaro di Jacovo
sta in: Alla Bottega 1981
via Plinio 38 Milano

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Cos'è l'estetica contestuale?

Se per estetica intendiamo quella parte della filosofia che si interessa della percezione, della considerazione dell'aspetto esteriore, per 'estetica contestuale' vorremo intendere quel tipo di estetica che considera la percezione, e lo studio di essa finalizzato all'arte, come qualcosa non di isolato, ma di profondamente connesso con l'ambiente, con il contesto.

Tutto inizia con una specie di lettera impossibile e improbabile che un insegnante di retorica, grammatica e linguistica scrive a Socrate, che pure non amava la scrittura.
Socrate è l'iniziatore del sentire e ragionare moderno, che pure dura tuttora da migliaia di anni e che del resto esisteva anche nella 'preistoria'.


Con Socrate e Platone ha inizio l'estetica storica, logica, socratica appunto.

Con Aristotele tocca limiti oltre i quali ancora oggi poco ci si è inoltrati.


Scrittura mediata e scrittura immediata

Se il primo, Socrate, rielabora e presenta le proprie teorie, divenendo a fonte e punto di riferimento, specie in absentia auctoris, ossia una volta che sia persa la voce stessa dell’autore, il secondo, Platone, che queste teorie eredita moralmente, eticamente e filosoficamente, diviene in pratica un autore che contenga anche il primo: un metautore.

Un metautore è un autore che si sviluppa all'interno della poetica d'un altro, inglobandola e quasi completandola, non certo sempre con atteggiamento di mera riproduzione di idee e fatti già esposti, ma anche con la complessità d'un organismo letterario o filosofico che continua e integra un altro, quasi per amore ed umiltà, per amicizia naturale e spontanea, ma anche fiera e orgogliosa di essere il completamento architettonico d'una base essenziale e geniale.

Quando si conservi l’originale di un'opera, come in larga parte della poesia epica, o in parte della poesia comica, in caso di iterazione di episodi e fatti si tratta non di sostituzione d’una voce ad un’altra, come fra maestri e discepoli, ma di emulazione rituale che si estrinseca in sede tematica e stilistica.

Quando non interessi anche la weltanshauung, la visione della vita, la poetica.

Il concetto quindi di relazione concerne quei rapporti di dipendenza ideale, ma anche pratica e stilistica che legano a livello espressivo e culturale i poeti, gli scrittori, i parlanti tutti.

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Oltre la cortina della solitudine, la cecità sapiente di Omero, che narra e concilia èpos e klèos, e la follia inconsapevole di Edipo, che discerne e distingue felicità e dolore, sta la parola, che lega e separa, parola che vivifica con simboli e suoni e racconto che concilia.
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E come suonano adatte le parole di Seneca, quando alla madre Elvia ... Consolatio ad Helviam matrem ... scrive dal suo esilio ...

'' ... io invece preferisco por fine al dolore, non ingannarlo ...


... Perciò ti conduco là dove devono rifugiarsi coloro che sfuggono alla cattiva sorte: agli studi letterari ... ''

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E ricordiamo, a proposito dell' effetto 'terapeutico' della letteratura, quando non sia essa stessa se male praticata fonte di pensieri ansiogeni, conosciuto assai prima delle esegesi e delle pratiche freudiane, junghiane ed in generale psico\terapeutiche, che un tempo quella sala di lettura e consultazione che gli ignari ritengono sonnolenta e noiosa, e che viene chiamata 'biblioteca', si definiva ... hè tès psykhès iatrèja ... luogo che guarisce e cura l'anima ...

Al giorno d'oggi questo termine, nella parola psichiatria ... psikiatrìa, persa la sua valenza semantica ed epistemologica, indica correntemente e forsitan riduttivamente la specializzazione medica che tratta terapeuticamente e studia gnoseologicamente patologie più gravi della malincolìa o dell'entusiasmo letterario, o del romanticismo esasperato, oppure del decadentismo collateralmente esteso alla sensibilità individuale da una analisi troppo intensa del contesto.

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Diciamo che gli Antichi, come li chiama Giovan Battista Vico, pur nell'apparente e barbarica violenza di certe loro abitudini, avevano un rispetto sacrale per la mente dei saggi ed un altrettanto pudore misto a venerazione per la mente di chi pare rapito da vaneggiamenti di profezie o di fobie ai più misteriose.

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Cassandra e Laocoonte parevano folli, eppure, se fossero stati ascoltati, Ilio non sarebbe stata bruciata in una notte di violenza e di inganno.

La stessa sacerdotessa di Apollo, la Pizia, dal nome del serpente, con il Lupo, il cui nome significa 'luce', sacro a Febo, Dio della Luce, della Sapienza e della Conoscenza, era una invasata, una ... entusiasta, che significa 'posseduta da un Dio', che ben poco avrebbe realizzato in termini di successo contestuale in un ambito socialmente 'normale'.

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Quanto poi al termine 'normale', significa ... conforme alla norma.
Ma cho può dirsi praticamente perfetto, tanto da essere conforme alla norma, ossia a tutte le norme umane, morali, politiche, anomali e divine?


Eppure, nella nostra lingua 'normale' vuol dire solo 'comune', 'ordinario', consueto.

Non è forse considerato folle da noi proprio chi vuole seguire tutte le norme?

Ossia il 'normale' per antonomasia ... ?

Vediamo bene che spesso il linguaggio è ingannevole, e diceva bene quel filosofo che affermò che un tempo, quando la trasgressione sarebbe divenuta una moda imperante, una regola e una legge, chi avesse seguito le leggi sarebbe stato tenuto per pazzo e delinquente ...

Quel filosofo, forsitan il Padre genetico della analisi introspettiva spinta fino all'incontro con la follìa stessa, come in un Labirindo oscuro accadde a Teseo con il Minotauro, moderno Dedalo ed Icaro dalle ali fragili ammorbidite dal Sole, era
Friedrich Nietzsche, che mai, come ci fa capire Giorgio Colli, è stato imparentato con i totalitarismi, ma con la Luce di Apollo e il guizzo estemporaneo di Dioniso.


Averli frequentati entranbi, Notte e Sole, genialità e inconsapevolezza può aver generato il frutto amaro del suo Dolore.

Non c'è forse festa senza crudeltà, ed anche il dolore ha in sé
qualcosa di festivo ...

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La follia era considerata, quando non era portatrice di dolore e di violenza, come quella di Medea, che uccise i figli avuti da Giasone, per punirlo con ferocia inaudita, uno stato contestualmente collaterale alla normalità della ragione, quindi.

E non dimentichiamo che lo stesso Freud affermava che sono proprio le persone 'normali' ad ... aver bisogno di cure psicanalitiche.

Era forsitan un modo per tradurre in termini di moderna democrazia il famoso ... '''medice ... cura te ipsum ... '''

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Ma, per tornare a noi, una relazione scolastica non è solo avvertire le ‘corrispondenze’ che Foscolo o Baudelaire coglievano fra gli elementi dell’universo.


Relazione o commento


Occorre, per redigere un commento, una relazione su una poesia, un brano di letteratura, un’opera più ampia come una tragedia, una commedia, un poema, leggere molto attentamente l’opera, cercando di cogliere i vari piani del racconto, per comprendere quale sia il livello dei fatti e quello delle idee.

Questo è importante, perché sviluppa la capacità di riconoscere le varie funzioni del linguaggio, nonché di separare decisamente l’espressione che tende all’informazione e alla storiografia da quella che tende alla espressione emotiva ed alla lirica, con tutti i passaggi intermedi.

È interessante distinguere, quindi, come un Autore scelga determinate persone del verbo, legate al piano del racconto, per differenziare una visione soggettiva (lirica) da una oggettiva (storiografica), usando la prima o la terza persona del verbo.

Un contatto diretto fra personaggi o fra Autore/mittente e lettore/ destinatario è dato dalla seconda persona, che consente approcci esortativi o fàtici.

A tale proposito valgono le essenziali organografie di Jakobson su fattori del messaggio e funzioni linguistiche.
Dallo stile partono indicazioni che mi spiegano aspetti sostanziali.
E viceversa.

È come se dalla luce di una stella, lontana anni luce e forse non più esistente – giacché la luce delle stelle è la loro ‘letteratura’, il loro messaggio capace di viaggiare per anni anche dopo l’esplosione o l’implosione dell’astro – noi fossimo capaci di rilevare conoscenze sulla sua conformazione.
Così dal comportamento espressivo dei personaggi dobbiamo rilevare informazioni etiche, sociali, politiche.

E questo è il campo più propriamente riservato agli approfondimenti tematici.

Una volta che, letto Edipo Re, ne ho brevemente narrato la vicenda in una parafrasi, una sintesi, un riassunto insomma, passo, senza che il lettore colga fratture, a parlare delle idee, dei temi che rilevo nell’opera.

Se ho letto attentamente l’opera, le letture antologiche e critiche e se ho una minima sì sensibilità personale, riuscirò ad individuare nel dolore dell’abbandono subìto, nella destrezza a sciogliere enigmi provenienti dalla sfera di Apollo, nell’ignoranza della propria storia, nella violenza imposta al viandante di cui nemmeno sa il nome, nella conquista del potere ottenuto come in una favola e della rovinosa autopunizione l’attualissima tematica edipica, cui non va tolto un eventuale approccio alla complessa analisi freudiana.

Naturalmente...


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... qui studet optatam cursu contingere metam...


qui studet optatam cursu contingere metam,
multa tulit fecitque puer, sudavit et alsit...


... il giovane che progetta di raggiungere di corsa il traguardo, deve sopportare ogni avversità, sia il caldo che il freddo ...

non si ottiene nulla senza un duro allenamento e solo con l’improvvisazione.

§

Le osservazioni sullo stile possono essere relative a brani scelti dal lettore.

Leggendo, si annoteranno figure retoriche interessanti.


Strutture paratattiche, ipotattiche e
Funzioni linguistiche

La funzione informativa, propria del parlare di questioni oggettive, quella espressiva, legatissima al mittente e tipica dell’espressione del soggettivo, quella fàtica, quando nel messaggio si cerca il contatto comunicativo, la poetica, se la cura fondamentale è nella ricercatezza del’uso del linguaggio, la metalinguistica, se con la parola si parla del linguaggio stesso, e infine la esortativa, presente nel messaggio che richiama eticamente il destinatario.

Carissimo, perdona la mia imprudenza: non chiedo troppo se invoco il tuo pnèuma, la tua Anima, nella speranza che una qualche energia divina, thèia manìa, non priva della necessaria tecnica espressiva, tèkne, opportunamente illumini i moderni, come un tempo illuminò il sommo fra i discepoli, Platone di Atene.

Abbiti un forte saluto.

PS
... e non dimenticare le basi dell'estetica che chiamo contestuale e che Tu stesso hai contribuito a formulare:

poesia epica
didascalica
lirica
drammatica
storiografica
filosofica

§

legata alla considerazione del contesto
ovvero delle realtà ambienti ...

ambiente completo
imminente
proiettato
attualizzato
inattuale

con la corretta analisi delle determinazioni e dei riferimenti denotativi, conseguenti alle osservazioni contestuali dei ...

temi e idee / piano connotativo

fatti / gesti / persone e personaggi /

... idee /
temi originali in opera e correlati
per affinità ed analogia in opere
diacronicamente successive o
sincronicamente coeve / piano denotativo


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Infine si effettueranno le ndicazioni sulle modalità dello stile e loro corrispondenza con argo/menti, temi e idee: po/ètica
secondo queste indicazioni ...

tendenze paratattiche e ipotattiche

funzioni linguistiche determinate dalle finalità intenzionali dei personaggi e dalla loro posizione di accettazione o rinuncia di una o delle / realtà, ovvero di rinuncia e cambiamento o di accettazione impegnata o evasiva.

Uso della figura retorica e del tòpos...ovvero del leit motiv.


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Platone

Se nella vita vi succederà di ritrovarvi schiavi, con le catene, poi magari trasformati in computers ante litteram, al fine della buona amministrazione della familia, dell'istruzione dei 'pueri', o in gladiatori, o rematori sulle galeae, o in qualcosa di assimilato, pensate, se avete manie di grandezza, a Ben Hur.

Oppure, se siete dei letterati più o meno apprezzati, parola che del resto deriva da 'prezzo', pensate a lui, all'ateniese aristocratico ma amico cordiale e sapiente d'ogni cittadino, al filosofo che per le spalle larghe era chiamato Platone.

Fra le esperienze che ebbe, vi fu anche quella della schiavitù, e non è disdicevole pensare che proprio la democrazia tanto amata e decantata di stampo ateniese portarono Socrate, il filosofo della ricerca in se stessi d'ogni seme di sapienza, alla condanna a morte e Platone alla perdita temporanea della libertà, così cara ai Greci.

Mentre scrivo, il pensiero va al Fedro, ove Platone traccia una interpretazione dell'anima umana vicinissima a quella attuale.
Un cavallo nero, le passioni e le pulsioni, i desideri e gli appetiti, tira impetuosamente un cocchio insieme ad un destriero bianco, che raffigura il lògos, la capacità di progettare e misurare obiettivi e forze.

L'auriga cerca di dominare l'irruenza del cavallo nero e di assecondare la docilità del cavallo bianco.

Il cavallo bianco è capace di imparare dietro qualche insegnamento, è docile, da doceo, insegno.

Ma il comportamento del cavallo nero rischia di rendere pericoloso o almeno rischioso il viaggio.

Compito della filosofia è comprendere e conoscere, della matematica arrivare all'essenza numerica della conoscenza, dell'arte sublimare ed eternare universalizzandole le emozioni e le sensazioni.
Tutte queste cose sono dirette splendidamente al cavallo bianco, all'anima logica.

E per il cavallo nero, chi si ingegnerà ad escogitare un filo per uscire dal labirinto delle emozioni tumultuose ed incamminarsi in sereno sentiero?

In realtà, sembra strano se non stravagante, è proprio l'universo caotico di questo cavallo a generare la materia prima, l'energia e la spinta dell'attività epistemica dell'uomo nella sua interezza.
E' per domare gli impulsi formidabili del suo ego che la tempesta da lui contenuta genera l'arte e la folosofia, madre d'ogni conoscenza, d'ogni sapere.

Per Platone l'arte nasce da una scintilla divina, la thèia manìa, che genera l'ispirazione, ma queste sarebbero vane senza la tèkne, la tecnica sapiente dell'artefice, dello scrittore.

Anche la tèkne sarebbe nulla senza il momento della follìa divina che soggioga il poeta, che come un indovino, un sacerdote di Apollo si sente preso, invasato, e parla esprimendo un messaggio che è in parte sua invenzione, in parte energia e motivazione che viene da un Dìo.

Follia, sì, ma follia quale esuberante energia conoscitiva e creativa, capace di trasmettere conoscenza, tecnica, ma tecnica che nasce dopo un impulso divino.

Ossia qualcosa di razionale, di logico che lavora su un terreno illogico, irrazionale, praticamente sulla follia.

Il tema della follia non era estraneo alla cultura primigenia della terra di Ellade.

Il mito, nato in tempi remoti, forse con il ragionamento stesso, era il racconto, e quindi presupponeva l'esistenza della parola, del lògos, che per i greci era ragione, ma anche parola.

L'epos era il racconto anche poetico, solenne delle gesta degne di klèos, di fama.


Era il klèos che gli eroi volevano, non altro. Ed il cantore, aèdo o rapsòdo, poteva dare klèos.

Il mito non era però il semplice e puro racconto.

Era il racconto che nasceva da un eroe, da un dio, da una situazione particolarmente ed iterativamente incisiva.

Il mito trasformava quel dio\eroe\situazione in un monito, un didàskalos èpos, un raccontare edificante ed educativo, tanto che con il tempo diveniva indipendente ed autonomo rispetto ad esso.


La parola


Epos, mythos e lògos.

Ma siamo proprio sicuri che la parola sia un attributo assolutamente 'umano'?

Nella Bibbia, intesa come uno dei più antichi documenti riguardanti le vicende umane, un serpente parla ad Eva.
Ed Eva gli risponde, a dire il vero con qualche rischio, persino.
Come poteva mai, sia pure nella finctio phàbulae, nella finzione del racconto fantastico, la prima donna già parlare e addirittura fare la stessa cosa un rettile?

In effetti, tutte le cose, gli animali, le piante 'parlano', hanno un proprio linguaggio, diverso, lontano nella tecnica e nella forma, ma pur sempre un linguaggio.
Parlare vuol dire esprimere un'emozione, un'idea, un concetto non necessariamente con un sistema complesso e strutturato come quello linguistico che Sausurre ci va spiegando con le sue teorie su langue e parole.

Per questo motivo, potremmo sospettare che il linguaggio sia in effetti sempre esistito, il linguaggio universale, visto che la memoria umana di per sé applica alla conoscenza le tecniche del linguaggio ordinario, trasformando un oggetto, una persona, un'idea in un'entità impalpabile grafica e fonica paragonabile ad un nucleo simbolico astratto.

Quando è nato il linguaggio come noi lo intendiamo, con suoni e parole, successivamente ordinati grammaticalmente e sintatticamente, è stato perché qualcuno ha intenzionalmente legato dei suoni a certi significati ed ha convinto altri a fare altrettanto rispettando suoni omologhi corrispondenti a significati analoghi.

Opera naturale è ch'uom favella
ma così o così natura lascia
poi fare a voi secondo che v'abbella...
...


Dante intuisce la naturalezza della diversità e dell'arbitrio linguistici ben prima di Sausurre.

Se non esistesse una capacità universale di comunicare, come farebbe il neonato a far capire così bene certe sue esigenze, e le piante a comunicarci sensazioni ed emozioni, ed il Sole a renderci note certe transitorie atmosfere della giornata?


Ideogrammi della Mesopotamia


Ma poi un giorno alcuni mercanti della Mesopotamia che avevano l'esigenza di controllare le merci escogitano un gruppo di segni dei quali si serviranno per catalogare i pezzi e le unità di derrata.

E da quell'espediente è nato l'alfabeto greco, figlio del fenicio, e quello cumano, etrusco, osco, romano, cirillico...

La Legge della Casa - Oikos nomos

Economia.

Legge della casa.

Dalla legge per la sopravvivenza della casa è nato il concetto di scambio e di commercio.

Dal commercio è nato lo strumento linguistico attuale, il sistema comunicativo per antonomasia: l'alpha\bèto.

Tutto quanto Omero compose, lo compose a memoria.

E' probabile che non conoscesse l'alfabeto.

Nella sua mente la dea Mnemosyne, Memoria, agiva come se esistesse un sistema di scrittura universale, utile alla poesia, non ancora letteratura.

Omero era cieco.

Sembra incredibile, ma se per sua sventura vivesse oggi, non potrebbe insegnare Greco in un nostro semplice Ginnasio.
Per legge. Perché da noi i ciechi ... non possono insegnare greco.
Il creatore della letteratura non conosceva alfabeto, probabilmente si stava diffondendo nel mondo ellenico proprio ai suoi tempi, creava con la Mente e pur essendo il Padre dei Poeti, nel nostro paese avrebbe fatto un mestiere diverso dall'insegnare lettere greche.

E' anche probabile che, conosciuto l'alfabeto ideato dai fenici, sia stato fra i diffusori, in qualche modo, dello stesso, o fra i primi utenti.

Possiamo immaginarlo, non ancora cieco, intento a combattere con quei segnetti su grossi fogli di papiro in una casa di Smirne, visto che praticava l'Asia minore più che le contrade contigue ai regni di Micene, Argo o Tirinto.

'Ma Platone dice altro nella Repubblica, a proposito dell'Arte, della Poesia.

E' inutile nella po'lis il poeta frivolo, quello che nelle sue opere non insegna, non mostra, non ammonisce.
Ecco farsi avanti nel pensatore greco l'aspetto, se non proprio commerciale, in buona parte 'politico', civile, utilitaristico ed utilitaristico della cultura, dell'arte.
Arte e Pòlis da Platone a Gramsci

Si direbbe anticipato il concetto gramsciano di calligrafismo e contenutismo e la distinzione fra un intellettuale figlio della sua classe sociale, al suo servizio, organico, ed uno invece tradizionale, disimpegnato o meno, a seconda delle opportune convenienze.

E' divenuto famoso il termine 'crociano' per indicare l'atteggiamento dell'intellettuale per nulla compromesso con aspetti e problemi di struttura, pratici, materiali, in quanto per Benedetto Croce la Poesia, l'Arte, non si deve confondere con il pratico, ma deve seguire il senso dell'intuizione e della contemplazione estetica.

Poesia e struttura, appunto, sono i binari dell'arte\poesia.
E' struttura tutto quanto si versa nel mare della materia: economia, storia.

E' poesia quanto, sempre che abbia a che fare con la trasmissione della conoscenza, tende ad interessarsi delle verità più astratte e sublimi.

All'interno della poesia stessa è possibile vedere in opera questa dicotomia.

La teoria platonica della utilità dell'arte fu ripresa e sviluppata da un suo allievo: Aristotele.

Nella Poetica questo grande studioso formula la teoria suggestiva della natura terapeutica dell'arte in generale, del teatro e più specificatamente tragico in particolare.


Càtharsis

Assistendo allo spettacolo tragico lo spettatoreche sia incline alla commozione viene spinto a rinunciare agli eventuali atteggiamenti pericolosamente irrazionali e passionali della vita sua precedente ed a intraprendere un itinerario di vita più retto e cònsono alle convenzioni della po'lis, al contesto ambiente.

E' la teoria della natura catartica delteatro tragico e dell' Arte in generale.

L'arte quindi, la Poesia, non sarebbero attività in sé e per sé, ludiche in senso limitato e restrittivo, edonistiche, capaci solo di distrarre dai problemi, ma assumerebbero un vero ruolo politico e sociale quali fattori catastematici, ossia rasserenatori, come sarebbero stati definiti successivamente dagli epicurei i piaceri non dannosi, o catartici, purificatori delle coscienze e capaci di migliorare i comportamenti sociali.


La metriòtes e il piacere catastematico

La metriòtes, la misura, la temperanza, il 'modus in rebus' di Quinto Orazio Flacco e degli Epicurei, epicurea, era la virtù precipua per Aristotele, e lo sarà per gli allievi di Epicuro.

Attraverso la moderazione, da cui l'est modus in rebus di Orazio, appunto, si ottiene quella vita serena, priva di eccessi e dei fastidi anche gravi che ne conseguono, praticando appunto quelle attività gradevoli ed utili che sono definibili come catastematiche, ossia capaci di rasserenare.

Il piacere deve essere appunto 'catastematico' se non vogliamo che da esso scaturiscano complicazioni anche dolorose.



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Estetica contestuale
seconda parte


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... Argos
o kyon
talasifronos Odysseos ...


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Indeks ...

1 Platone
2 Aristotele
3 Nomina sunt consequentia rerum
4 Apollo e Dioniso
5 la metriòtes aristotelica
5.1 Ottaviano e Mecenate:
Arte potere e consenso contestuale
6 Quinto Orazio Flacco
6.1 contestualità dell' Arte


Platone

... Se per la costruzione delle basi del pensiero filosofico Socrate fu il raziocinatore che in giro per Atene dialogava con i Giovani, affidando al lògos, parola discorso e ragionamento, la sua ricerca del vero, Platone fu l'Alunno per antonomasia che ricorda e sistema l'opera del suo Maestro, cocciuto e coraggioso tanto da farsi uccidere dalla sua Pòlis, pur di restare fedele alla sua onestà epistemologica.

Cosa c'è di Platone in Platone?

E di Socrate cosa c'è in Platone?


Ogni insegnante dubita, a volte, che l'insegnamento esista veramente.

Non esiste certo in quanto passivo deporre informazioni nella testa dei discepoli.

Non esiste in quanto supino e prono travasare dati e impulsi sonori e trasmetterli come da un microfono ad un amplificatore.

L'insegnamento è la faccia criptata dell'apprendimento.

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Un maestro è grande quando scompare nel discepolo, in qualche modo qualunque esso sia, volontariamente o meno, quando viene avvolto dalla nebbia della dimenticanza e riesce a rivivere nella mente e nell'anima dell'Alunno senza che questo neppure lo sappia.

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Certo.

Solamente quello che è veramente importante si dimentica, molto spesso, perché si possiede pienamente.

Si ricorda la scoria, il superfluo, tutto quello che ci impegna e ci mette in ansia.

Platone è Socrate, ne fa rivivere l'essenza, ricordandolo e citandolo sempre nelle sue opere, facendone l'eroe protagonista, come su un palcoscenico che vede le strade di Atene e le sue case, le sue piazze, i vicoli senza sole ed il Partenone trasformate in un palcoscenico senza legno e senza pubblico, con attori che sono il Didàskalos con i Suoi Alunni.

E Alunno di Platone fu un altro intelletto eccellente.


Aristotele

Se Platone dovette sistemare come un poeta, come uno scrittore sublime d'una prosa musicalissima il pensiero di Socrate sugli universali, sulle categorie, ricavandone la teoria delle idee, dell'iperuranio, e aggiungendo di suo probabilmente le teorie estetiche sull'Arte figlia dell'irrazionale e della tèkhne, come se si trattasse alla fine di rivelare la natura profonda, bipolare, ut ita dicam, della Poesia, dell'Arte, del linguaggio, della natura umana ed animale stessa.

Del resto, il mito greco, così splendidamente interpretato da tanti scrittori e poeti, basta pensare al Foscolo, a Cesare Pavese, e da tanti filosofi e sociologi, come Giorgio Colli, Karolj Kerenij, Gustav Jung, dallo stesso Sigmund Freud, che tanto prese da Sofocle e da altri Autori ellemici, massimamente dai tragici, aveva descritto l'universo come un miscuglio di khaos e di kòsmos.

Dall'avvicendarsi di queste due forze poderose, fuori e dentro l'uomo, nasce il lògos, si realizza la poesia e l'arte.

Ma non avrebbe senso il concetto di cosmo se non ci fosse il khaos.

E non si intenda il termine kòsmos come ovvia metafora del bene ed il khaos come indicatore simbolico del male.

Khaos era come è l'nsieme coesistente delle sostanze in una indistinta materia e Kòsmos il suo distinguersi in organismi ed elementi riconoscibili nella loro individualità.

Così le tenebre e la luce, contrapposte nella religione antica e moderna, indicano il mondo dell'origine e la chiarezza dell'esistene nel presente.

In effetti nell'universo il nero predomina e la luce non è che prerogativa di uno sparuto grappolo di stelle che si autoconsumano e che non dureranno che un limitato e breve tempo.

La luce non è solo virtù delle splendide stelle, quindi.
Fulsere quondam candidi tibi soles... ... cantava Gaio Valerio Catullo.


Si direbbe che in effetti la luce sia idipendente dalle nostre capacità ottiche, che sia percepibile anche nel sonno, nel buio della notte più scura, che sia nera.

E che il nero non sia sinonimo di oscurità assoluta.
Ciò che chiamiamo luce dopotutto è solo l'effetto di certe radiazioni nel nostro apparato sensitivo.

Quindi interpretare il kòsmos come 'ordine positivo' ed il khaos come 'disordine negativo' è piuttosto semplicistico, visto anche che dal khaos nasce in genere l'ordine, mentre dal kòsmos spesso si precipita nel Khaos, che in greco per questo voleva dire anche baratro della materia.

Questo bipolarismo universale e cosmico, nemmeno troppo alternante, in quanto l'avvicendarsi degli estremi, che potevano riflettersi nelle personalità di Apollo e Dioniso, erano legati a fattori imponderabili e imprevedibili, portava a quello stato momentaneo, a volte anche duraturo, che era il lògos.

Se del resto l'universo procede secondo leggi che non sembrano affatto tali, ma vincoli naturali, spesso smentiti, l'esistenza dell'uomo oscilla nella rappresentazione della parte del figlio degli dèi, da salvare, e del figliastro ribelle, dedito ad ogni sorta di sopruso.

Può davvero l'uomo distruggere la terra, suo piccolo angolo e rifugio?

O non è solo altro che, lui stesso, una delle tante invenzioni della Natura che non esclude di escogitare anche forze distruttive capaci di provocare solo guai a sé ed ai simili?

La Terra vittima dell' uomo, o paradossalmente il laboratorio in cui l'uomo mette alla prova se stesso e i suoi simili, in una specie di esperimento assolutamente controllato e 'naturale', in quanto si tratta di esseri inventati e fabbricati da quella forza caotico cosmica che chiamiamo 'natura'?

Aristotele dovette dare una impostazione e un ordine pratico e tassonomico al castello complesso e variamente articolato nato dalla ricerca etica, matematica, umanistica ed estetica di Socrate e Platone.

Ne attutì l'impostazione idealistica, la provvide d'una ossatura organizzativa pratica, operativa e quando ebbe escogitato il suo sistema di categorie, classi e definizioni, passò alla poesia, all'arte.

Nella Poetica tracciò la sua teoria estetica, che tanto è ancora efficace da avere influenzato non tanto le teorie dell'arte, ma anche quelle, più materialistiche e pragmatiche, della politica e dell'economia.

Ma attenzione, che la parola economia ha come significato letterale legge della casa.

Non dovrebbe interessarsi quindi, l'attività che ne deriva, solo, come si pensa, di mercati e scambi, conti e valuta, debiti e crediti.

Quando l'economia è questo e solo questo, la società tende a bruciare le risorse danneggiando le prospettive future.

Questo avviene sempre quando le parole vengono fraintese, quando si instaura un linguaggio approssimativo e dozzinale.

Dire fico al fico, dicevano i greci, è consigliabile sempre.

Ecco, noi da qualche tempo usiamo il termine 'tassa' al posto di 'imposta'.

E' veramente stranissimo, ma lo facciamo nonostante le biblioteche, i licei, i forum.

Così facciamo per tutto il resto delle parole.

Usiamo inutili metafore, esageriamo con la retorica, rubiamo il mestiere a scrittori, rètori e poeti.

Certo che poi ... carmina non dant panem ...

Se noi ci buttiamo sul ... panem et circenses ...


Nomina sunt consequentia rerum

Ma anche

... res sunt consequentia nominum...

Ebbene, quando Aristotele affrontò il dilemma della finalità dell'arte, tema che gli stava molto a cuore, visto il suo pragmatismo, dopo averne descritto tutte le possibili realizzazioni, i vari generi poetici, giunse ad esaminare la tragedia, ossia quella forma d'arte e di letteratura, di poasia, che era passata dalla natura di semplice produzione letteraria, prorpia dei testi in genere, ad un assetto dialogato, parlato in presenza d'un pubblico presente e vivo.

Era dovere dei cittadini assistere alle rappresentazioni tragiche, il cui dio era Dioniso, il dio del presente, dell'azione improvvisa, estemporanea, per quanto meditata o preparata sotto l'influsso di Apollo, dio della conoscenza, della luce, della profezia di qualsiasi genere.


Apollo e Dioniso

Dioniso metafora e personificazione idealizzata del presente e Apollo del futuro.

A questo proposito Aristotele elaborò una teoria d'un pragmatismo insuperabile.

Quando uno spettatore facile alla commozione, e quindi predisposto ad un mutamento interiore, assite alla rappresentazione d'una tragedia, resta colpito dalla violenza del contesto scenico e rappresentativo, descritto non da fatti o gesti, ma dalle dalle parole, e solo da e con esse, nella tragedia greca.

In seguito, in lui si sviluppa un processo catartico, che lo induce ad una specie di purificazione da tutto quando si assembra e rassomiglia a quello che lo ha sconvolto a teatro.

E' chiaro che quando si parla di tragedia, si intende in modo globale e figurata tutta l'arte.

Ma la catastrofe, che non era altro ed altro non è che l'ultima parte del dramma tragico, e che significa il momento del cadere, del risolversi nell' atto finale, evidentemente nel caso specifico del teatro di eventi drammatici rappresentati dagli attori sulla scena, assurge a paradigma d'ogni forma d'arte, se questa può commuovere, e non sempre, e redimere, cambiare e non solo descrivere e rappresentare contestualmente la nostra realtà globale, intima ed esterna, lirico soggettiva e pratico storica.

L'arte tutta dunque è catartica.

Ma attenzione.

Non si salvano tutti.

Solamente quelli predisposti in quanto facili alla commozione.

Questa è la funzione che Aristotele attribuisce alla tragedia, e quindi all' Arte in diverse misure.

Evidentemente, la poesia può avere una funzione sociale e politica condizionata e condizionante, strumentalizzabile, come evidentemente si sapeva prima e come si è imparato a conoscere forse anche meglio in seguito.

la metriòtes aristotelica

Il concetto dell' utilità dell'arte e della poesia, della funzione sociale dei poeti, della loto collocazione attiva nella po'lis, fu trasmesso da Aristotele agli stoici ed agli epicurei.

Di Epicuro sappiamo molto, ma quel poco che si è trasmesso grazie alla maldicenza ha quasi offuscato la importanza del suo pensiero.

Evitare i piaceri, vivere appartati, non esporsi ai rischi della fortuna in politica ed in economia, coltivare la moderazione e prediligere l'amicizia, rifuggendo dalle passioni specie d'amore, dagli eccessi d'ogni genere.

La metriòtes, la misura nella vita e nelle esperienze d'ogni genere, era un'idea sempre di Aristotele.

Ottaviano e Mecenate:
Arte potere e consenso contestuale


Fu ripresa in pieno da Epicuro e dai suoi seguaci, fino ad arrivare, ai tempi di Cesare Ottaviano, alla celebre frase ... est modus in rebus, di Orazio.

Proprio Quinto Orazio Flacco, il poeta ufficiale, insieme a Publio Virgilio Marone, di Ottaviano nel tempo della celebrazione delle vittorie di Roma su nemici interni, come i cesaricidi, e su avversari alleati con principati stranieri, come Marco Antonio e l'Egitto di Cleopatra, riprende in una sua satira il tema della funzione, del ruolo dell'arte.

E partendo dalla teoria platonico aristotelica sviluppa il pensiero di Epicuro a riguardo.

Il poeta non deve fuggire dalle esigenze e dalle necessità della società in cui vive, ma deve realizzare un tipo di espressione letteraria che serva alla critica, ove necessario, dei vizi, alla sollecitazione delle coscienze verso un miglioramento politico della società e umano in genere dei cittadini.

Quinto Orazio Flacco

Orazio, apulus an lucanus, non è per la cosiddetta ... ars gratia artis... ossia per un'Arte fine a se stessa, paga e soddisfatta dei suoi meri esercizi estetici.

Anche questi occorrono all'artista, perché la forma, lo stile, sono essenziali per la poesia, ma la sostanza deve essere in definitiva l'utilità del discorso letterario e poetico.

Perfezione stilistica, assiduo ... labor limae, forza nei temi, coraggio nello scrivere, ma tutto questo senza gli eccessi di Lucilio, poeta satirico impetuoso e quindi anche frettoloso nello scrivere, come dice Orazio, che invece raccomanda componimenti brevi, da limare, direbbe Gaio Valerio Catullo, come una pergamena, con la pietra pomice, con un continuo ... labor limae, appunto.

Epicureo ... porcus ex grege Epicuri ... come si definisce lui stesso scherzosamente e con grande rispetto per il mondo degli Animali, Orazio collega la grande tradizione filosofica greca alla filosofia successiva che avrebbe rappresentato e fornito il modus vivendi a numerosi scrittori, politici e intellettuali fino a Marco Aurelio, anche lui epicureo, e ad Adriano, per citare i più noti.

contestualità dell' Arte

Con Orazio, la teoria estetica platonica sulla contestualità dell'artista e dello scrittore assume la sua veste più completa e più adatta alla necessità di conciliare il piacere dato dalla lettura, dal teatro, dalla visione dei manufatti artistici con l'impegno sociale, sentito sempre come dovere impellente, fin dai tempi dei fratelli Gracchi, Gaio e Tiberio, vittime di un impegno sociale sentito come primario.

Per Orazio la poesia è un'attività da artefice, da facitore di parole e di pensieri, nonché di proposte etiche e comportamentali, insomma da poeta, ossia da filosofo e da artigiano che inventa con fantasia e realismo una serie di situazioni letterarie, estetiche e teatrali in cui va essenzialmente curata la forma, sostanza stessa dell' Arte, e reso degno e valido il contenuto e da scrivere e produrre in un contesto che può essere di conseguenza, mediatamente se non immediatamente, cambiato, accettato o anche in parte o del tutto ricusato.

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