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CENNI SULLA LINGUISTICA
Rivista Letteraria Alla Bottega Milano
Direttore Pino Lucano
di
Gennaro Di Iacovo
Al Professore Arnaldo Corrieri ed ai miei alunni del Ginnasio.
« Perché dunque incolparmi adesso, dell'avervi messo a parte delle mie ansietà, se mi ci spingesti e scongiurasti Tu stessa? Forseché, nel disperato e mortale- sbaraglio in cui mi dibatto, sarebbe in tono, che voi intanto ve la godeste? O vorreste forse, adesso, esser soltanto compagne di gioie, e non anche, più, di dolore? rallegrarvi con gli allegri, sì, ma piangere coi piangenti, no? Tra i veri e i falsi amici non c'è maggior divario che dell'associartisi i falsi, nella fortuna, ma, i veri, nella sventura ». (Abelardo ed Eloisa, Lettera V - Alla Sposa di Cristo il suo servo - A.F. Formiggini Editore, Roma 1927, pagg. 113 segg.).
Secondo Ferdinand de Sausurre « la materia della linguistica è costituita anzi¬tutto dalla totalità delle manifestazioni del linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili, di epoche arcaiche o classiche o di decadenza, tenendo conto per ciascun periodo non solo del linguaggio corretto e della "buona lingua", ma delle espressioni d'ogni forma. Non è tutto: poiché il linguaggio sfugge piut¬tosto spesso all'osservazione, il linguista dovrà tenere conto dei testi scritti, i quali soli potranno fargli conoscere gli idiomi del passato o quelli -lontani.
Il compito della linguistica sarà a) fare la descrizione e la storia di tutte le lingue che potrà raggiungere, ciò che comporta fare la storia delle famiglie di lingue e ricostruire, nella misura del possibile, le lingue madri di ciascuna famiglia; b) cer¬care le forze che in modo permanente e universale sono in gioco in tutte le lingue, ed estrarre le leggi generali cui possono ricqrjdursi tutti i particolari fenomeni della storia; e) delimitare e definire se stessa » (F. De Sausurre, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1979, pag. 15).
Osserva il Mounin {Guida alla linguistica, U.E. 626, Feltrinelli ed., Milano 1975, pagg. 19 segg.) che la « linguistica », intesa come lo studio scientifico del linguaggio umano, è « un insieme di conoscenze molto antico » e, nello stesso tempo, « una scienza assai recente », perché ha in realtà una lunga tradizio¬ne scientiflco-culturale alle spalle, anche se solo recentemente è stata clamorosa¬mente portata all'attenzione d'un vasto pubblico, grazie a recenti studi sociologici e psicologici sui sistemi linguistico espressivi.
Prima gli Indiani, poi i Greci ed .infine gli Arabi hanno posto le basi per un'ana¬lisi fonetica di notevole valore, anche se troppo trascurata per duemila anni.
Certamente, possiamo prendere come motivazione di base della nascita del linguaggio l'esigenza di comunicare impressioni ed informazioni nata dall'incontro di esseri dotati di sensibilità e, se vogliamo, d'intelligenza. Molto tardi si è svilup¬pata la scrittura. Per giungere a questa si è dovuto genialmente intuire che è pos¬sibile connettere ad altro segno-simbolo grafico-fisico un suono, ed infine un si¬gnificato convenzionale. Si è giunti per gradi a quei segni che ora chiamiamo « let¬tere », e che hanno la funzione di materializzare visibilmente dei suoni (fonemi).
I primi linguisti senza dubbio sono stati « gli uomini che hanno inventato e perfezionato la scrittura » (Meillet, in Mounin, op. cit.). Durante il Medio Evo, ac¬canto ad uno studio convenzionale e grammaticale, spiccano alcune intuizioni ori¬ginali e quasi anticipatrici di teorie ancora oggi attuali, come quelle di Dante, che esamineremo più oltre.
La riforma dell'ortografia, operata in tutta Europa e resa operante con l'inven¬zione della stampa, stimolerà lo studio della fonetica fino al secolo XVIII. Del XIV secolo sono le prime grammatiche delle lingue volgari. Guido Cavalcanti scrisse « una grammatica e un'arte del dire » sul volgare fiorentino (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Voi. I, pag. 56, Einaudi, 1958). Dal XVI secolo inizia lo stu¬dio delle lingue amerinde e nascono i primi dizionarì poliglotti. Si tentano le prime classificazioni linguistiche (Scaligero). Nel XVII e XVIII secolo la ricerca si esten¬de in ogni direzione: la fonetica progredisce con gli studi anatomici ed appas¬siona gli inventori delle stenografie e delle lingue artificiali, e gli educatori dei sordomuti.
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Tuttavia resta insolubile il grosso problema dell'origine del linguaggio, malgrado le ipotesi proposte, tutte non sufficientemente attendibili o non verificabili, come quella dell'ebraico lingua madre. La scoperta del sanscrito, tra il 1786 e il 1816, segna una grande svolta in questo campo, Si dimostra, con una evidenza indiscu¬tibile, la parentela tra il latino, il greco, il sanscrito, le lingue .germaniche, slave e celtiche. Nasce, con i tentativi operati da Franz Bopp per ricostruire l'indoeuro¬peo nei suoi tratti essenziali, la grammatica comparata. Si prende spunto, para¬gonando fra loro i diversi linguaggi, dai metodi e dai principi delle scienze natu¬rali. Le lingue vengono assimilate ad organismi viventi: allo studio del linguaggio viene applicato, per quasi mezzo secolo, il metodo biologico.
Secondo i grammatici « naturalisti », come lo Schleicher, che era anche bota¬nico-naturalista, le lingue nascono, crescono e muoiono come qualsiasi organismo vivente. E la loro vecchiaia inizia dal momento in cui si codificano nella scrittura.
Dagli studi linguistici comparativi, si sviluppa la linguistica storica, che nasce dall'esigenza di paragonare fra loro fenomeni linguistici verificatisi attraverso stadi progressivi d'una stessa lingua. Così la grammatica comparata da origine al¬lo studio della incessante evoluzione delle lingue. Questa trasformazione è rea¬lizzata tra il 1876 ed il 1886 dalla scuola dei neogrammatici, a cui si deve la si¬stemazione rigorosa del fonetismo arioeuropeo.
La fonetica detiene in questa fase una importanza predominante: riesce a spie¬gare la quasi totalità dei mutamenti linguistici.
Ci si rivolge anche alla nuova scienza: la psicologia, per spiegare la dinamica di alcuni fenomeni generali.
La lingua, studiata storicamente, non è più considerata un'entità suscettibile d'un'analisi biologica, ma piuttosto un'istituzione umana. La linguistica diviene, perciò, una scienza storica, e non appartiene più alla sfera delle scienze naturali.
Una nuova impostazione al problema linguistico sarà data da Sausurre (1857-1913), che interpreterà il linguaggio come una istituzione sociale. Come già si è accennato, compito fondamentale della linguistica è, per il Sausurre, quello di descrivere il maggior numero possibile di lingue storico-naturali e famiglie di lin¬gue sia nella loro funzionalità in un dato momento, sia nel loro divenire attraverso il tempo (studio sincronico o diacronico - « langue » o « parole »), sia da un punto di vista interno, sia da uno psicosociologico, culturale, storico e, in generale, « esterno ».
La teoria del linguista svizzero, in pratica, rovesciò le impostazioni tradizionali della linguistica. Egli stabilisce che la prima tappa d'una scienza del linguaggio dev'essere lo studio del suo funzionamento, « hic et nunc », e non quello della sua evoluzione. La linguistica storica deve esser messa al secondo posto, da un punto di vista metodologico, rispetto ad una più importante linguistica descrittiva. È que¬sta la nota opposizione tra linguistica sincronica e linguistica diacronica.
Lo sforzo di comprendere il funzionamento puro del linguaggio come istituzio¬ne sociale, qui e adesso, conduce il Sausurre a mettere l'accento sulla nozione di sistema. Questo, per lui, è quasi sinonimo di codice. Così « segno », per lui, non è più sinonimo di parola, termine troppo generico, e la nozione di « catena par¬lata » diviene prioritaria rispetto a quella di « frase ». Il termine che Sausurre usa in questo campo è quello di « unità ». Egli vuole individuare le unità reali che compongono la catena parlata. Gli strumenti che propone per studiare le unità di codice che costituiscono i messaggi, sono analisi strutturali. Per questo, con lui, ha inizio il cosiddetto « strutturalismo ». '
La lingua, per il fondatore della moderna linguistica strutturale, « è il patri¬monio collettivo delle forme foniche "significanti", univocamente combinate con i relativi "significati". Questo'patrimonio di segni è organizzato in "sistema", in quanto ciascuno di essi deve la sua esistenza al fatto di entrare in certi rap¬porti con gli altri.
La "funzionalità" del sistema — ciò che lo rende uno strumento atto a funzio¬nare nei singoli atti di "parola" — è costituita appunto dalle opposizioni e corre¬lazioni intercorrenti tra i singoli elementi, i quali risultano individuati dai loro rap¬porti differenziali nei confronti degli elementi similari, piuttosto che dalle loro caratteristiche positive » (R. D'Avino, Introduzione a un corso di Storia Comparata …
delle lingue classiche, Kappa Ed., Roma 1967, pagg. 13 segg.). Quindi, per com¬prendere veramente un termine, non si può isolarlo dal sistema di cui fa parte
In tal modo il linguista svizzero anticipa i risultati e le scoperte dovute agli studi di antropologia culturale, che vedono la lingua non come legata ad una struttura oggettiva di cose, ma come creatrice di tali strutture, in funzione dei bi¬sogni della società che la pone e la mantiene in essere.
La lingua ha infatti la capacità di discriminare l'esperienza in significati e di organizzare le fonìe o le loro rappresentazioni grafiche in significanti.
Sausurre distingue, all'interno del fenomeno linguistico, un aspetto « oggettivo » costante, la « langue », ed un aspetto « soggettivo », individuabile, espressivo, la « parole ».
La « parole » è l'uso che ciascun parlante fa del patrimonio linguistico espres¬sivo comune (« langue »).
L'opposizione fra « langue » e « parole » si può interpretare come quella fra sistema astratto e sue singole manifestazioni materiali. Quella fra paradigmatica e sintagmatica si può interpretare in termini di codice e messaggio; ad essa molti fanno corrispóndere una distinzione terminologica fra struttura (sintagmatica) e sistema (paradigmatica). (G.C. Lepschy, La linguistica strutturale, P.B. Einaudi, Torino 1966, pag. 31).
I principali agenti del mutamento linguistico vengono individuati nei fenomeni dell'alternanza, dell' analogia e dell'agglutinazione.
Dopo Sausurre, lo strutturalismo ha assunto varie tendenze:
Strutturalismo ontologico (Chomsky): concepisce, antistoricamente e naturali¬sticamente, le strutture sociolinguistichre come prodotto delle doti biologiche
contenute nell'uomo, nella sua natura, e quindi le ritiene « innate ».
Strutturalismo. storicizzante: riconosce nelle strutture un prodotto storicamente e tem¬poralmente circoscritto dell'agire umano. Lo strutturalismo praghese (Jakobson e Trubeckoj) è stato ontologico e storicizzante.
Strutturalismo metodologico: concepisce le strutture solo come sistemi utili alla pre¬
sentazione ed alla catalogaziene dei fenomeni.
Strutturalismo. epistemologico: nel riconoscimento del carattere strutturato d'un campo d'esperienza vede una necessità non derogabile della conoscenza umana.
Lo strutturalismo americano è stato soprattutto uno strutturalismo metodolo¬gico. Bloomfield, Harris, Hockett ed Hall ne sono i maggiori esponenti.
Poiché la lingua è un organismo in evoluzione, ci si offre la possibilità di un suo studio diacronico che ne colga l'evolversi temporale.
Sausurre privilegia però, come si è già detto, un secondo tipo di analisi del fenomeno linguistico, basato sullo studio della lingua in un determinato momento storico, così da descriverne il meccanismo ed i rapporti esistenti fra gli elementi che ne costituiscono il sistema. Così, pur ponendo in evidenza l'arbitrarietà del linguaggio, afferma che tale caratteristica è limitata e disciplinata daìla organicità del sistema.
Tutto il sistema della lingua poggia sul principio irrazionale dell'arbitrarietà del segno, per cui il significato viene unito al significante non per una precisa legge naturale, ma in base a criteri « arbitrari » scelti dal parlante.
Questo principio, applicato senza restrizione, porterebbe alla massima con¬fusione.
Lo spirito riesce ad introdurre un principio d'ordine e di regolarità in certe parti della massa dei segni, ed è in ciò il ruolo del relativamente motivato. (F. De Sausurre, Corso di Linguistica Generale, Laterza, Bari 1972, pag. 159).
Solo una parte dei segni è assolutamente arbitraria. Presso altri interviene, in¬vece, una serie di rapporti che ne limitano l'arbitrarietà, lasciando il posto ad una motivazione, che resta, comunque, pur sempre parziale.
Questi rapporti che determinano il significato arbitrario dei segni sono detti paradigmatici (o « associativi »), in quanto definiscono o precisano il significato all'interno di una medesima serie (insegnare, insegnamentp, indottrinamento etc.). Sono rapporti in absentia.
Altri rapporti, però, contribuiscono a definire il significato di un segno, e sono i rapporti sintagmatici. Vale a dire quelli che intercorrono fra una parola e quelle che seguono o precedono nella frase.
Il valore della parola dipende, perciò, anche da quello delle parole che la cir¬condano nella catena parlata. Si tratta, quindi, di rapporti in praesentia.
Lo studio sistematico di ogni unità minima, di tutte le sue possibili associa¬zioni oppositive (paradigmatiche) o dei vari rapporti sintagmatici, coincide con una considerazione « sincronica » della lingua.
Questo si traduce in una « linguistica statica » che descrive un particolare stato della lingua. Questa per Sausurre è la « grammatica ».
Tale concetto supera la grammatica normativa tradizionale, basata su rigorose classificazioni delle parole (le « parti » del discorso). Si arriva ad una visione glo¬bale, sistematica e funzionale del fatto linguistico. La « morfologia » si fonde con la « sintassi » e con lo studio lessicologico. Anziché partire dagli elementi lingui¬stici, si parte dal sistema, avendo come fine la scoperta di come funzioni e si realizzi nei singoli atti del parlante. Dopo le feconde e geniali intuizioni di Sau¬surre, — scrive G.C. Lepschy (La linguistica strutturale, Einaudi 1966, pagg. 37-39) — le tendenze strutturalistiche si possono caratterizzare sommariamente co¬me segue, in base alle loro linee direttive teoriche.
La Scuola di Praga, e più recentemente A. Martinet, per il loro insistere sui valori funzionali della struttura linguistica e dei veri elementi di cui la struttu¬ra si compone.
La Scuola di Copenaghen, e in particolare la glossematica di L. Hjemslev, per il suo insistere sul carattere astratto del sistema linguistico, in base al quale van¬no interpretate le singole manifestazioni materiali.
La linguistica americana, in particolare postbloomfieldiana per il suo carattere tassonomico, per il suo basarsi cioè su processi di segmentazione (del continuum, dell'enunciato in elementi minori di cui esso è composto) e di classificazione di tali elementi in base alle loro proprietà distribuzionali (in base cioè alle possibilità che tali elementi hanno di combinarsi fra loro, formando unità di ordine superiore sempre più complesse).
Le teorie generative, in particolare di Chomsky, elaborate a partire dalle diffi¬coltà contro cui si scontrava l'analisi linguistica tassonomica, introducono nel modello linguistico da esse elaborato, delle regole che consentono di generare (tutte e solo) le proposizioni ammesse in una certa lingua; si introducono in parti¬colare delle regole di trasformazione che consentono di generare intere categorie di proposizioni a partire da altre categorie di proposizioni basilari (la cui struttura viene stabilita attraverso procedimenti tassonomici).
La grammatica generativa trasformazionale è composta da un blocco o com¬ponente centrale sintattico (un calcolo, come si direbbe con termini della logica moderna); da un lato questo è soggetto a un'interpretazione semantica (il compo¬nente semantico è quello che attualmente richiede maggior elaborazione); dall'al¬tro, le « stringhe » finali che esso produce vengono, attraverso le regole del com¬ponente fonologico, materializzate nella catena parlata, nei messaggi fonetici che noi percepiamo. Una posizione centrale hanno le teorie di Jakobson e più recente¬mente di Halle, secondo cui nel componente fonologico ci si serve di un inventario di dodici «tratti distintivi binari » che costituiscono veri universali linguistici, co¬muni a qualunque lingua.
Noam Avram Chomsky porta i dati e le intuizioni di Sausurre a livelli decisa¬mente rivoluzionari. La linguistica, con lui, abbandona ogni finalità semplicemente classificatoria (linguistica tassonomica) per interessarsi soprattutto di ricostruire modelli ipotetici espliciti delle lingue, destinati a chiarire i dati linguistici osser¬vabili. Con lui ci si avvia verso una vera concezione teorica della linguistica, già abbozzata dagli strutturalisti.
Il linguista americano, che ricerca le forme della realtà profonda del linguaggio, reinterpreta la distinzione sausurriana di « langue » e « parole » nei termini di « competenza » (la conoscenza implicita, e non conscia, che il parlante ha della propria lingua) e di « esecuzione » (le frasi che il parlante produce realmente, nelle quali si manifesta la sua competenza), e si propone di definire la compe¬tenza linguistica, cioè, come egli scrive. « // sistema astratto di regole che sotto¬sta al comportamento verbale di ciascun parlante ». Chi parla una lingua può pro¬durre, e comprendere, un numero pressoché illimitato di frasi, la maggior parte delle quali non sono mai apparse prima, e, molto verosimilmente, non riappari¬ranno più.
Ogni parlante « reinventa » la lingua. Di questo aspetto creativo del linguaggio umano, fondamentale per Chomsky, non darebbe certo ragione una indagine che si rivolgesse all'esecuzione — cioè a un corpo di.testi necessariamente finito —, per estrarne, induttivamente, il sistema di regole che lo governano.
Del resto, come ricorda l'esperienza della scienza contemporanea, la raccolta, l'osservazione e la classificazione dei dati non ci garantiscono alcuna generalizza¬zione scientificamente valida, che possa cioè prevedere i nuovi fatti, oltre a fornire una descrizione plausibile di quelli già noti. La formulazione di una teoria scientifica comporta sempre un rischio. Essa viene costruita servendosi di un numero limi¬tato di esperienze, e quindi verificata nei fatti, che hanno la funzione di farla respin¬gere o accettare (« i dati dell'osservazione sono interessanti nella misura in cui hanno una incidenza sulla scelta fra due teorie rivali », scrive Chomsky). A questi principi s'attiene il linguista, allorché cerca di specificare le regole che governano la competenza lingusitica, elaborando alcuni modelli ipotetici (grammatiche), e confrontandoli quindi con i fatti linguistici reali, che decideranno quale sia il più adeguato.
A differenza degli strutturalisti europei, Chomsky non parte dalle unità minime della lingua, ma dalla frase. Il compito di uria grammatica risiede nella capacità di enumerare tutte le frasi incontestabilmente grammaticali della lingua data, esclu¬dendo, per converso, quelle pure incontestabilmente non grammaticali (V. Boarini -P. Benfiglieli, Avanguardia e restaurazione, Zanichelli, Bologna 1976, pagg. 666 segg.).
In questo modo il fatto centrale nello studio del fenomeno linguistico è la in¬nata capacità che ha ogni parlante di produrre e di comprendere un numero gran¬dissimo di frasi, anche se non le ha mai prima d'allora ascoltate né pronunciate. Questa capacità produttiva e decodificatoria nell'ambito linguistico, la chiama dunque « competenza (linguìstica) » (= conoscenza implicita che ogni parlante ha della propria lingua). Tale sistema mentale di regole e norme linguisticamente ope¬ranti è codificato nella « grammatica ».
Chomsky tende a ridurre i modelli linguistici ad un insieme di regole meccanica¬mente applicabili sotto la forma di un algoritmo (procedimento sistematico che consente di pervenire al risultato desiderato con una bene determinata succes¬sione di operazioni eseguite secondo regole precise).
Abbandonando la pretesa di emettere giudizi inconfutabili sulle reali regole usate dal parlante nella produzione linguistica, la grammatica generativa cerca in sostanza di adeguarsi, cercando di definirne i meccanismi, alla realtà sottostante il comportamento effettivo dei parlanti. Così diventa una branca della psicologia.
Si cerca pertanto di ricostruire ipoteticamente e scientificamente la struttura di un meccanismo che ogni bambino ha riprodotto appropriandosi di un linguaggio in un determinato ambiente.
Questo meccanismo deve essere molto sistematico e ben coordinato, operante secondo schemi omogenei, se è vero che bambini di 2-3 anni sono già in grado di appropriarsene. Insomma, una grammatica è un meccanismo capace, pur essen¬do finito, di generare un insieme infinito di frasi grammaticali.
Il modello linguistico di base di cui Chomsky si serve per visualizzare i rapporti esistenti fra i costituenti (parole) della frase, è il « phrase marker » (indicatore della frase). Questo è anche definito « indicatore sintagmatico », in quanto scom¬pone la-frase in gruppi sintagmatici,- ossia in gruppi di parole che hanno un con¬tenuto unitario, e all'interno di ogni sintagma specifica le categorie (nome, articol et cetera) e le funzioni (soggetto, predicato etc.).
Il costituente più elevato è la frase.
Ad esempio:
l’uomo colpisce la palla
Una prima divisione comporta una prima distinzione fra due sintagmi. Il sintagma o gruppo nominale (GN] « l'uomo », forma¬to da articolo (o determinante) e nome, ed il sintagma o gruppo verbale « colpisce la palla ». Quest'ultimo può essere diviso ancora in altri costituenti: il verbo, « col¬pisce », ed il secondo gruppo (o « sintagma ») nominale (GN) « la palla ».
I due GN possono essere scomposti neMoro costituenti ultimi (parole, « mor¬femi » o, per Martinet, monemi, ossia unità linguistiche minime dotate di signi¬ficato):
l'uomo = GN (o SN) = Art (o Determ.) + N (sogg. = GN 1) la palla = GN - Art + N (compi, ogg. = GN 2)
La « formula » della frase semplice è, quindi, la seguente: Fs = GN + GV.
Mediante l'applicazione d'una serie di « regole di riscrittura » si giunge ai costi¬tuenti terminali:
GN + GV Art + N + GV Art + N + Verbo + GN + N + Verbo + GN + uomo + Verbo + GN + uomo + colpisce + Art + N + uomo + colpisce + la + N + uomo + colpisce + la + palla
(E. Cavallini Bernacchi, l'insegnamento della lingua, II Punto-emme edizioni, Mi¬lano 1975, pag. 84 e N. Chomsky, Le strutture della sintassi, U. Laterza, Bari 1974, pag. 36).
(Nota: le « regole di riscrittura » hanno la forma generale X—>Y, da interpre¬tarsi come « si riscriva X come Y ». Per es. F—» SN + SV (Frase = Sintagma (o Gruppo) Nominale + Sintagma Verbale).
Questo sistema permette — cosa che si nota facilmente — di visualizzare an¬che le differenze di struttura che possono generare ambiguità in frasi apparente¬mente simili.
Esaminiamo la frase seguente:
1. una vecchia
porta la sbarra
2. una vecchia porta
la sbarra
L'ambiguità è generata dal modo in cui si intende il monema « porta »: Nome
oppure Verbo. :
Nel primo caso la stringa categoriale sarà A + N + V + A + N.
Nel secondo sarà: A + Agg. + N + Pron. + V.
Ma esistono frasi che restano ambigue anche dopo un'analisi sintagmatica strut¬turale di questo tipo.
Per esempio, la frase « il maestro spaventa il bambino » è ambigua, perché può essere assunta sia nel senso che il maestro compie qualche azione che spaventa il bambino, sia nel senso che il bambino si spaventa alla sem¬plice vista del maestro.
Nei due casi è diversa la relazione tra « il maestro » e « spaventa ». La gramma¬tica sintagmatica non è in grado di distinguere strutturalmente le due interpreta-zioni.
La grammatica sintagmatica non sa render conto delle relazioni intuitive fra una frase attiva e la corrispondente negativa, interrogativa o passiva.
IL TRASFORMAZIONALISMO
Per questo motivo Chomsky introduce le regole « trasformazionali ». La sua grammatica è detta perciò « generativo-trasformazionale ». In questa grammatica, ad una prima analisi « sintagmatica », che visualizza le strutture profonde delle frasi, segue una seconda analisi che chiarifica le regole di trasformazione, determinando la struttura superficiale delle frasi, che coincide con la forma finale degli enunciati.
Per esempio, alla struttura profonda « io ordino a te tu vieni » operano le trasformazioni che la mutano in:
« ti ordino di venire » .
La grammatica sintagmatica analizza solo la frase-base.
Costruito il primo indicatore sintagmatico, si può procedere all'applicazione di ogni possibile trasformazione:
ti ordino di venire?
Ti ordino di venire!
Vieni! … te lo ordino
Da parte mia ti si ordina di venire
Io … ordinarti di venire !…
(interrogativa, esclamativa ed imperativa; negativa, passiva ed enfatica).
La frase-base è « dichiarativa ».
Le posizioni della grammatica generativo trasformazionale, come osserva la Bernacchi, sono, implicamente, un'accusa continua ai fini ed ai metodi delle gram¬matiche tradizionali. Mentre quest'ultime (ch£ si identificano in genere con quelle scolastiche) si preoccupano di fornire al parlante un insieme di regole che rendano corretto ed ortodosso il suo uso linguistico, le grammatiche generative assumono che le regolarità della lingua siano già implicitamente possedute dal parlante, alla cui competenza, anzi, fanno continuo ricorso per valutare il loro grado di ade¬guatezza.
Il fine di tali grammatiche, quindi, non è di fornire le regole della lingua, ma di scoprirle deducendole dagli usi linguistici concreti. Esse si propongono non di « in¬segnare la lingua », bensì di indagare sui processi mentali che regolano l'acquisizio¬ne e l'uso delle lingue, cioè di formulare un sistema di norme che permetta la for¬mazione di tutte le possibili frasi grammaticali ed escluda invece quelle non grammaticali.
Non hanno dunque intenti didattici, ma scientifici. Loro scopo, come si è accen¬nato, è la costruzione di una teoria del linguaggio.
Per questo, tali grammatiche rifiutano ogni atteggiamento di infallibilità e di incontestabilità, prerogativa delle grammatiche tradizionali. In questo senso, pur senza assumere fini didattici, le grammatiche generative contengono fondamentali fermenti didattici. Le « regole » grammaticali si rivelano inutili in un doppio senso: da un lato perché l'insegnante dovrebbe abituarsi a non spiegare ai propri alunni i fenomeni della lingua, ma a cercarne invece insieme a loro diverse possibili spie¬gazioni; dall'altro perché ciascuno impara a parlare correttamente da" sé, purché venga esposto all'emissione di enunciati corretti, e purché non gli sì crei la paura di sbagliare.
In questo senso uno dei fondamentali compiti dell'insegnante riguardo all'ap¬prendimento linguistico resta quello di riprodurre e di incrementare la situazione naturale di conversazione, di scambio verbale spontaneo attraverso cui ogni bambino, senza che gli vengano insegnate regole, impara a parlare.
Sì tratterà poi, in diversi gradi a seconda del livello scolastico o delle fasce di
livello all'interno di una classe medesima, di prendere spunto da questi atti di co¬
municazione per avviare riflessioni sistematiche sulle caratteristiche dell'uso lin¬
guistico, così da rendere ciascuno il più possibile consapevole delle caratteri¬
stiche, della natura e delle possibilità dello strumento linguistico (E.C. Bernacchi,
pagg. 90-91).
§
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DANTE PRECURSORE DELLA MODERNA LINGUISTICA
Intuizioni dantesche di chiarissima.attualità sono la considerazione del linguaggio come «forma» e del « segno » come « libero »; il riconoscimento del divenire delle .lingue e della sto¬ricità del fatto linguistico; il rilievo del fattore sociale nel processo evolutivo dei linguaggi; la nozione di « lingua » come comunione linguistica nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; la nozione di lingua comune come ten¬denza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'arte e il prestigio e l'azione del potere politico.
Sarà bene analizzare brevemente solo alcuni di questi punti, mirabilmente illu-strdu ud Antonino Pagliaro (A. Pagliaro, Nuovi Saggi di Critica Semantica, la dot¬trina linguistica dì Dante, Editore G. D'Anna, Messina-Firenze 1963, pagg. 215 segg.).
Il linguaggio è, per Dante, facoltà propria ed esclusiva dell'uomo di esprimere con parole gli intellectus o conceptiones della mente.
La parola è per lui il « segno fonico », come noi l'intendiamo, « rationale et sen¬suale » (De Vulgari Eloquentia, I, III, 2); ha, cioè, una realtà sensibile, in quanto il suono è oggetto di sensazione, ed una realtà spirituale, in quanto il complesso fonico ha un significato che ad esso inerisce non per necessità naturale, ma perche gli uomini ve lo attribuiscono: « nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare idetuz ad placitum » (De V.E. I, III, 3) (ed appunto questo segno è quel subietto nobile di cui parlo): infatti è alcun¬ché di sensibile, in quanto è suono; e di razionale, in quanto appar significare alcuna cosa a piacimento) (Dante Alighieri, Tutte le opere, a C.L. Blasucci, ed., Firenze 1965, pag. 205 b).
" Fu necessario, dunque, che il genere umano per comunicare fra sé le proprie idee disponesse di qualche segno sensibile e razionale; che esso, dovendo da ra¬gione ricevere ed a ragione portare, fu necessariamente razionale; e non potendosi d'altra parte riferire da una ragione all'altra se non per mezzo sensibile, fu neces¬sariamente sensibile. Pertanto, se fosse soltanto razionale, non potrebbe passare dall'uno all'altro; se fosse soltanto sensibile, non potrebbe da ragione ricevere ed a ragione portare » (De V.E. I, III, 2).
Sono da rilevare due punti essenziali in questa concezione. Prima di tutto il riconoscimento (cinque secoli prima di Sausurre) dell'arbitrarietà del segno lin¬guistico, e più precisamente della libertà della parola come complesso di segni va¬riamente organizzati. Tale arbitrarietà (« aliqujs significare ad placitum ») è lega¬ta da Dante con la libertà inerente allo spirito [ratio], mentre gli animali che ob¬bediscono all'istinto sono legati nel comunicare a certi atti o manifestazioni emo¬tive (« per proprios actus vel passiones » — per mezzo dei suoi propri atti o pas¬sioni — De V.E,, I, III, 1).
La facoltà di connettere suono e significato è data all'uomo da natura, ma l'at¬tuazione, la modalità di tale connessione è ad arbitrio degli uomini, cioè della li¬bertà che è inerente alla loro « ratio »:
« Opera naturale è ch'uom favella;
ma, così o così, natura lascia
poi fare a voi, secondo che v'abbella » (Paradiso XXVI, 130-132).
A questa comune capacità fonico semantica, corrisponde nei fatti una grande varietà di lingue diverse.
Per spiegare la formazione di comunità linguistiche distinte, Dante ricorre alla tradizione biblica della confusione babelica, interpretandola in forma nuova e ori¬ginale.
Gli uomini che erano intenti alla costruzione della torre, per la necessità del loro lavoro, crearono tante lingue speciali in conformità alle singole attività comuni.
« Solo quelli, infatti, che si accomunavano in una data operazione vennero ad avere una lingua medésima: una, per esempio, tutti gli architetti, una quanti rotolavano i sassi, una quanti li preparavano e così avvenne di tutti gli operai. E quante erano le forme di attività impegnate nella costruzione, in tanti idiomi allora si divide il genere umano » (De V.E. I, VII, 7). Dante individua nel bisogno di comu¬nicazione, inerente al comune lavoro, la creazione di singole lingue speciali.
47 Pur senza staccarsi dalla base culturale tradizionale, costituita dalla Bibbia, egli aggiunge una nota nuova al mito ebraico, anticipando la moderna teoria « sinergastica »'(greco: siunergàzomai = lavoro insieme) dell'origine delle lingue.
Sulle lingue europee, Dante pone quello che chiama « idioma tripharium » come lingua che ha dato origine alle tre lingue romanze a lui note: francese, provenzale ed italiano. Non dice, però, esplicitamente cosa sarà stato questo linguaggio che è alla base delle tre lingue neolatine. Non lo identifica, comunque, con il latino della tradizione colta.
Lo sviluppo del suo argomentare porta necessariamente alla nozione di una lingua parlata, di cui il latino letterario, il latino dell'uso colto medioevale, sarebbe stato la forma grammaticale.
E nello stesso modo in cui ha intuito l'unità sostanziale dell'idioma tripharium, di cui la « lingua del sì », la « lingua d'oil » e la « lingua d'oc » sono manifestazioni diverse, Dante intuisce anche la fondamentale unità della « lingua del sì » alla base delle varietà dialettali. In tal modo, quindi, giunge alla determinazione della comu¬nione linguistica, che è alla base di un dominio dialettalmente differenziato, ossia della « lingua » nel senso « storico » della parola.
« In quanto agiamo come Italiani, abbiamo alcuni segni essenziali e di costumi e di atteggiamenti e di idioma, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane. E appunto questi, che sono i segni più perfetti di quelle che sono le azioni proprie degli italiani, non sono specifici di nessuna città d'Italia e in tutte sono comuni; fra essi ora si può discernere quel volgare di cui sopra andavamo in cerca, del quale ogni città vi è sentore e che in nessuna ha sede » (De V.E. I, XVI, 3-4). È da rilevare che Dante pone la lingua sullo stesso piano dei costumi e degli istituti, in cui si determina la fisionomia storica di una comunità.
Noi oggi sappiamo, e Dante lo aveva"intuito, che l'affermarsi di una lingua co¬mune su un dominio dialettalmente differenziato è dovuto a circostanze varie, poli¬tiche e culturali, che danno la prevalenza alla parlata di una regione, di una città o addirittura di un ceto. Così è avvenuto per la Koinè greca, affermatasi per il pre¬stigio politico e culturale di Atene; così è avvenuto per l'italiano, per il francese, per il tedesco.
Ma Dante non ci trovava, come ci troviamo noi, ora, di fronte al fatto compiuto, e con le sue intuizioni anticipava l'avvenire, riuscendo a prevedere lo sviluppo probabile di certe potenzialità linguistiche.
Se l'italianità linguistica ha la sua essenza in alcuni caratteri fondamentali. •• primissima signa », il volgare illustre, cioè la lingua comune, non può aversi se non attraverso lo scoprimento di questi caratteri e l'adeguamento ad essi di ogni atteggiamento del parlante, escludendo il difforme ed il deviato dall'uso corretto della lingua.
Appare chiaro come Dante veda nell'unificazione linguistica un'opera di crea¬zione nazionale e popolare collettiva, ed un'opera di ricerca cosciente e paziente da parte di una minoranza di intellettuali che. avvalendosi dell'Arte, di un gusto gentile e raffinato e dell'appoggio d'un opportuno ambiente politico, dia uniformità ed ampiezza all'uso linguistico, mantenendolo, tuttavia, fedele ai suoi fondamentali contrassegni genetici.
Concludendo, gli elementi nuovi apportati dal trattato dantesco nei confronti della speculazione linguistica antica e anticipatori delle moderne dottrine lingui¬stiche si possono così riassumere: considerazioni del linguaggio come « forma » (ossia costituzione del vocabolo nel suo rapporto necessario fra suono e significato e modo di organizzare i vocaboli nella frase: delimitazione di Piano Paradigmatico e Piano Sintagmatico) e del « segno » come « libero » (arbitrarietà del linguaggio, per Sausurre); riconoscimento del divenire delle lingue e della storicità del fatto -linguistico; rilievo del fattore sociale e politico; nozione di « lingua » come « co¬munione linguistica » nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; nozione di lingua come tendenza cosciente all'unificazione, che si attua attraverso il magistero dell'Arte e il prestigio e l'azione del potere politico.
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